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Il racconto

LA SPARIZIONE

GIOVANNA DE LUCA - 27/01/2017

cignoPer una settimana il maltempo aveva stravolto il lago e portato a riva sacchetti di plastica e scorie legnose. I giardinetti sbattuti dalla pioggia giacevano esangui, come i resti riemersi di una città sepolta. E in paese tutti sembravano morti.

Maria, di giorno stava seduta dietro la vetrina del negozio, sotto i portici: souvenirs e chincaglierie, ma non era stagione, ormai, a novembre inoltrato. Era sola, mentre i fratelli lavoravano all’interno, oltre l confine. A notte fonda, il sibilo del vento s’insinuava negli spazi tra le case e snidava gli interstizi del selciato, penetrava da padrone nelle fessure dei muri. Allora la ragazza, supina sul letto, ascoltava le imposte lottare sui cardini.

Per tutte quelle notti di vento, Maria non dormì. La mattina si alzava presto e serviva la colazione ai fratelli, la luce accesa nel retro del negozio, che era anche sala da pranzo e cucina: morti i genitori da tempo, lei ultima dopo quattro maschi, Maria dopo le medie era cresciuta all’ombra del negozio, e dei fratelli. L’estate, il settembre e poi la primavera erano belli.

C’era movimento, la domenica spesso la banda, e si vendeva. A Maria piacevano gli stranieri, quando si sforzavano di farsi capire e parlavano tra moglie e marito e poi chiedevano il prezzo. Per lei non esisteva universo reale, che non avesse i contorni dello scenario di fronte: oltre il portico davanti al negozio la strada, più in là i giardinetti con le panchine di pietra, ed il lago: alti e arrotondati, lo chiudevano i monti. E Maria viveva come uno spettatore che, entrato in teatro a sipario rialzato, stia fermo a guardare il palcoscenico già pronto all’azione, ma vuoto e in attesa, come vuota è la platea alle spalle. Sempre così si sentiva Maria.

A scuola era stata una mediocre scolara: “poco motivata”, secondo i professori. Non aveva amiche. Dopo le medie molte compagne erano andate alle superiori, nel capoluogo vicino, altre a lavorare oltre confine. Così i giovani prendevano il largo, per ritrovarsi la domenica in piazza, con le moto, a decidere la giornata. Le ragazze che studiavano erano assai spesso ardite: talvolta Maria ne ascoltava i discorsi, sentiva che a scuola c’era stato lo sciopero. Non capiva. Ragazzi, non ne conosceva, a parte Beppe, figlio del tabaccaio, fermo come un masso per ore, a pescare. Eppure c’erano, e si costruivano la vita; di qualcuno, si sapeva che faceva il contrabbando.

Nessun fratello, mai le aveva veramente parlato. Solo il maggiore un giorno, a scuole concluse, l’aveva presa in disparte e le aveva detto: “Sei grande abbastanza per badare a ogni cosa. Adesso è tuo dovere fare quello che la mamma farebbe per noi”.

Maria aveva detto di sì, perché la parola mamma le aveva dato un morso dentro, e tutto il suo lavoro in casa e in negozio era per la mamma, non per i fratelli. Il maggiore l’osservava, qualche volta: che ragazza era questa, che quasi non parlava, e non aveva iniziative, come loro quattro invece, che guadagnavano e dal paese se ne sarebbero andati. Ma lui, cosa poteva fare? Vestita era, nutrita pure. Per i pochi abitanti essa era “la Maria”, nata inattesa da genitori anziani e, si sapeva, un po’ balorda.

Maria conosceva la commiserazione della gente; ne aveva avuto coscienza a dodici anni, una volta all’oratorio, dov’era andata perché con i fratelli il parroco aveva tanto insistito. Era seduta sul muretto, e rigirava un fiorellino in mano. Più in là, alcune ragazzine organizzavano un gioco, ma nessuna la chiamava. Allora il parroco le si era avvicinato e battendole due o tre colpetti sul capo le aveva detto: “Su, su, vai a giocare anche tu, poverina”. Poverina: cosa voleva dire “poverina”? Maria era avvampata e si era ritratta di scatto, e il parroco aveva pensato che quella creature, Dio l’aiutasse, proprio non era normale. Su quel termine Maria era tornata: aveva capito soltanto che certo significava una brutta cosa, una malattia che tiene gli altri lontani. Era capitata a lei, ma perché? Aveva dunque sofferto, in un lungo letargo della mente e del corpo, da cui era uscita a quindici anni, pallida, senza desideri.

L’ultimo pomeriggio di quella settimana di maltempo, Maria era seduta, le mani in grembo, dietro la vetrina del negozio. Scrosci d’acqua battevano il selciato, da destra, da sinistra, l’acqua rimbalzava turbinando come polvere. All’improvviso arrivò una fuoriserie, frenò, proseguì e si fermò al marciapiede, al di là della strada. A Maria sembrò che il guidatore non avesse saputo che fare e avesse esitato a fermarsi. Guardò. Dentro l’automobile vide muoversi qualcosa, agitarsi qualcuno. Senza sapere perché fu in piedi, il cuore in gola, per meglio vedere.

Era tutta negli occhi: ogni fibra di lei tendeva all’automobile, all’evento che vi si svolgeva, come uno spettacolo. Di colpo s’aprì la portiera, ne scese una donna, stivali, impermeabile giallo, elegante: si buttò fuori, rabbiosa si mise a correre avanti. Il cuore di Maria era un boato. Subito balzò dal sedile l’uomo, l’acqua offuscava la vista, Maria stringeva i pugni, il vento strappò all’uomo il berretto: egli corse come poté, raggiunse la donna, ella si divincolava, era un alterco: Maria intuiva una voce arrochita, un’altra implorante. Ondeggiarono un poco, le braccia avvinghiate, poi Maria vide, in un lampo, uno schiaffo. Fu lei a gridare, a coprirsi il volto piangendo.

Quando lo risollevò, l’acqua aveva dato tregua, un chiarore accennava dai monti, posato il vento sugli oleandri strapazzati. C’era un grande silenzio. Maria sedette, stremata. Furono il rientro di un fratello, e il suo rimbrotto (“Cosa fai lì al buio, scema?”) a scuoterla. Quella sera si mosse ai fornelli, al lavandino, come un automa. Le giunse ovattata una disputa tra i fratelli, sul come impiegare il denaro. Quando finalmente fu sola, chiuse tutto e andò subito a letto.

La pioggia cadeva leggera, quasi una carezza e un sussurro, una nuova pace assopiva le case. Gli occhi aperti sul buio, Maria pensava. Quella donna, quell’uomo: venivano da una città, forse erano in viaggio. Percepiva una realtà sconosciuta, solo ogni tanto avvertita come un offuscamento denso, nella mente e nel corpo, che se ne andava così, com’era venuto. Se l’uomo amava la donna, perché l’aveva picchiata? E se l’odiava, perché si accompagnava a lei? A lungo Maria tentò di rispondere al quesito. Poi, in un lungo dormiveglia, si vide sul palcoscenico, dove dalla platea era salita. Era proprio così, come la realtà: sul fondale i monti, e poi il lago, la balaustra bianca, il piccolo giardino; oltre la strada i portici e sotto i portici il negozio e poi lei, seduta alla vetrina. Ore, mesi, anni: dietro la vetrina Maria fu castana, poi grigia, poi bianca e contorta.

Verso le due, una figura sottile scivolò dal portoncino. Camminò rasente i muri, inciampò nel gatto che protestò, dai portici fu al lungolago, corse, poi sembrò che volasse.

Alla fine del lungolago, ormai fuori paese, s’incastrava tra il cemento e il molo sgangherato una piccola spiaggia. Covi di rifiuti, di appuntamenti, nonché pericoloso per il modo in cui la terra sprofondava nell’acqua. C’erano canne, fango e putridume, ma quella notte, caduto il vento e sorta grandiosamente la luna, sembrava un luogo fatato. Non pioveva più, né Maria aveva freddo. Si spogliò nuda, accantonò i vestiti sotto un pilastro, poi tolse l’elastico ai capelli che sciamarono, onda bruna, sulle spalle magre.

Avanzò leggera sulla ghiaia. Le braccia aperte alla luna, cantò una nenia d’infanzia dolcissima e lenta, ne mutò le note, le trasformò ritmandole in volute di danza che ballò, libera e consapevole, piegandosi e rialzandosi, misurando a ogni mossa la rispondenza perfetta del corpo. A lungo danzò, armoniosa e sicura.

Un cignetto sporco sgusciò dalle canne. Maria corse ad esso, fu in ginocchio nell’acqua. Gli parlò, gli disse che era stata infelice (ora lo sapeva), che era felice adesso: esso l’ascoltava, assentiva ogni poco piegando il becco sul collo. Più intimo e fitto si fece il parlare, poi il cignetto le disse qualcosa all’orecchio: Maria fu luminosa, rialzandosi. Camminò un poco. Quasi al centro della insenatura, scivolò a terra prona, ebbe la ghiaia tra i capelli, nei denti. Le braccia e le gambe distese e allargate, remò con ali bianche nella sabbia, lenta e profonda, sempre più giù…

Il giorno dopo, verso le dieci, fu dato l’allarme per cercare Maria. Alle undici un piccolo crocchio era al molo. Erano stati trovati i vestiti, e l’elastico che raccoglieva i capelli. Si pensava a un bruto, ma non si capiva, conoscendo Maria, come qualcuno avesse pensato di portarla lì, di fargliene proposta. Comunque, se il lago se l’era presa, il lago l’avrebbe restituita.

Ma il lago non la restituì. I fratelli non sapevano che dire. Per un poco ci fu agitazione in paese. Poi, non se ne parlò più.

Solo Beppe, gli occhi dilatati e immobili, andava talvolta a sedere sul molo, a fissare la ghiaia. E se gli fosse accaduto d’andarci di notte, quando più alta è la luna, allora avrebbe visto nell’ora più fonda scostarsi le canne, spuntare un piccolo cigno e formarsi sul greto, preciso, il profilo sottile d’un corpo di donna.

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