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Il racconto

LA DECISIONE

GIOVANNA DE LUCA - 03/03/2017

scrivereAlla fine, un giorno, aveva deciso: non avrebbe scritto più, nemmeno un rigo.

A che scopo farlo? Le ragioni per cui non valeva la pena scrivere facevano ampiamente aggio su quelle per cui valeva la pena farlo.

Le stava rianalizzando ora, seduto su una panchina davanti al lago, nel deserto di un pomeriggio feriale. Ultimamente cercava la solitudine più di quanto avesse mai fatto, sembrandogli di percepirsi in essa come una creatura esistente per davvero, con quel corpo, quel viso, quegli occhi, e non come una nullità galleggiante in una folla. Accomodatosi per benino, accavallate le gambe, fissò un punto sulla parete selvosa di fronte e si concentrò sulla solita analisi.

Primo: la questione del “successo”. Era prioritaria, va da sé. Si scrive per essere letti. Se si è letti vuol dire che si è bravi. O no? È noto tuttavia che molti libri di grande successo devono la propria fama non alla sostanza del contenuto, ma ad altre sotterranee e labirintiche ragioni. E su questo terreno, per carattere, egli era solo in grado di perdersi.

Per arrivare al successo, che per lui significava avere la percezione di esistere, aveva tentato tutte le strade possibili. L’arido lavoro in un ufficio, dove si recava ogni mattina, gli consentiva fortunatamente di godere di un discreto tempo libero, che dedicava alla sua passione: la letteratura. Infatti era laureato in lettere. Per frequentare quella facoltà, aveva dovuto in casa combattere una dura battaglia: di famiglia modesta, i genitori con sacrificio lo avevano avviato agli studi superiori, nel sogno di vederlo raggiungere “una posizione”. Dopo qualche anno di insegnamento, fallimentare perché non sapeva comunicare con i ragazzi, preso com’era dal desiderio di affermazione personale, si era accomodato ad essere poco più di un passacarte, nell’ufficio dove non gli si dava credito ma era tutto sommato benvoluto. I suoi, ora anziani, si erano rassegnati a vedere quel figlio unico ormai di mezza età vivere immusonito e solitario, perduto nelle sue fantasie, nei suoi disinganni, e soffrivano per lui, in silenzio. Infine non sapeva amare: le ragazze con cui era entrato in relazione lo avevano dopo un poco lasciato. Con suo sollievo, bisogna dire, perché non era in grado di gestire un rapporto umano nella realtà, ma solo nella finzione. Perché,va riconosciuto, sapeva scrivere.

Perciò aveva tentato la scalata all’affermazione, cioè alla ricerca dell’editore che pubblicasse i suoi scritti. Da uno all’altro, dal piccolo editore di provincia al più importante in sede nazionale, da un concorso di poco conto a uno di prestigio, da un salotto all’altro, da una conoscenza all’altra, da un inchino a un altro…e così via. Convinto che servisse qualche santo in paradiso, si era perfino infilato nei salotti della politica, dove si era mosso come un pesce fuor d’acqua. E non c’era evento cui non partecipasse, e non c’era manifestazione cui non andasse… Aveva ottenuto qualche piccolo riconoscimento, incaponendosi sempre più nell’intento di “arrivare alla fama”. O tutto o niente, e se niente doveva essere, tanto valeva non scrivere più.

C’era poi stata la seconda ragione che lo aveva indotto a deporre la penna: il denaro. Il suo stipendio non era granché, i genitori ce la facevano appena con la sola pensione del padre ed egli spesso si sentiva in dovere di aiutarli. Per le frequentazioni che si era imposto, occorreva mantenere un certo tono: solo chi ha denaro, pensava, può permettersi di fare il bohémien! Essendo povero, era costretto a incredibili rinunce: mangiava poco e male, dormiva ancor meno perché la notte scriveva storie che nessuno avrebbe mai letto, era sempre più magro e patito, anche se elegantissimo. Quando un giorno il padrone di casa lo aveva affrontato con violenza sulle scale, minacciando denunce, aveva capito che così non poteva continuare. Con la scrittura, fino ad allora, ci aveva rimesso, mai guadagnato. E allora era necessario cambiar vita.

Cosa poteva fare, per rimpinguare lo stipendio? Ma naturale, dare ripetizioni, non era forse laureato? Anzi, pensò alzandosi dalla panchina mentre cominciava a fare troppo fresco, domani pomeriggio avrebbe avuto quello studente debole in italiano…Uno, il solo: e chi più andava a lezione di italiano, ormai? Lingua morta, pensò con sdegno, sostituita da segni che odiava su orribili moderni ordigni…

C’era stata poi la terza ragione. La riconsiderò, percorrendo il lungolago: nodo bruciante dell’anima. Cosa sarebbe rimasto di lui, dopo la morte? Se non riusciva ad essere un grande scrittore la cui fama sopravvivesse, se le sue carte, i suoi libri, il suo corpo e i suoi pensieri erano destinati ad essere pulvis et umbra, a che scopo scrivere? Tutto è nulla, si ripeté affacciandosi alla balaustra, ed il resto è silenzio.

Così, da un anno ormai, non scriveva più. Salutati gli “amici” che si era andato a cercare, lasciati i luoghi che vanamente aveva frequentato, venduta l’automobile di lusso, cambiata casa, si era detto: “Adesso, invece di scrivere, vivrò. Come il mio collega: senza grilli per la testa, accontentandomi di quel che posso permettermi, vivrò di qualche buona lettura, del sole sul lungolago, di quattro chiacchiere al bar. E la domenica starò con i miei vecchi, che ho fatto patire abbastanza. E poi c’è quella ragazza, in ufficio…chissà!”

La canna di un pescatore sotto di lui ebbe un fremito, il pesce si dibatteva disperato. Perché la cosa lo impressionò?

Si allontanò dal lago, prese la via interna del paese, di negozi e caffé. La mattina era andato a presentarsi in un’azienda, dove una circostanza insperata gli aveva aperto una nuova possibilità di lavoro, un po’ più remunerato. Lo aveva accolto una giovane donna bionda, avvenente, dal piglio sicuro, come di chi sa comandare. Seduto davanti a lei, imbarazzato da quell’imperiosa femminilità, aveva presentato il curriculum, risposto alle domande. Lei lo fissava, impenetrabile. Ne colse solo un guizzo dello sguardo sul collo della camicia, stazzonato. Poi entrò un uomo, un anonimo dirigente con cui furono scambiate parole di circostanza. Per un momento la giovane donna e il dirigente si appartarono nel vano della finestra e a lui parve che la giovane sorridesse ironicamente.

Lo accompagnarono alla porta, gli dissero: “ Le telefoniamo noi “.

Uscendo, aveva percorso un lungo corridoio su cui si aprivano uffici dove aveva visto donne e uomini di età diverse seri, quasi cupi, piegati su carte e computer. Una ragazza con un foglio in mano lo aveva maldestramente urtato, né si era sognata di fare un cenno di scuse. All’ingresso, abituato con il vecchio portiere dello stabile in cui lavorava, aveva detto: “Buongiorno”, senza ricevere risposta, se non un indecifrabile sguardo. Ora, tornando a casa, ricordava di aver provato una anticipata nostalgia per i suoi compagni di lavoro, che nulla sapevano della sua decisione di cambiamento: quanto era buona la collega che a volte passando gli accarezzava maternamente la spalla, fraterno il ragazzo sveglio che all’altro capo della stanza gli schiacciava un occhio, e simpatico il collega grassoccio con le sue barzellette un po’ spinte! Ma quello era un piccolo ufficio. Questo, se lo avessero assunto, era ben altra cosa. Né avrebbe avuto più tempo per scrivere. Ah, già, stava dimenticando che non scriveva più.

E arrivò all’angolo da cui si diramavano le principali arterie del paese: alle spalle il lago, di fronte una via in salita, a destra la provinciale che, attraversando l’abitato, proseguiva a sinistra verso un’ altra cittadina e il confine con la Svizzera.

Fu in quel punto che fu costretto a fermarsi, folgorato da una novità inaspettata: all’altro angolo della strada, in diagonale rispetto a lui, luccicante, luminosa nelle due vetrine, bellissima, risplendeva una libreria! Una nuova libreria, in tempi in cui molte chiudevano!

Attraversò la strada senza badare alle auto, si appiccicò ad una vetrina, poi all’altra: multicolori, studiatamente disposti, i libri riempivano gli spazi, da uno all’altro lo sguardo percorreva immagini autori case editrici fascette, più seducenti di gemme, più affascinanti di qualsiasi attrattiva.

Dentro di lui scoppiò una tempesta: si sentiva il piccolo pesce appena visto, che si dibatteva all’amo della grande azienda del mattino. Si vide prigioniero, incupito su un computer, isolato tra compagni di sventura. Con qualche soldo in più, ma senza la voglia di aprire la finestra sul lago, la sera, e respirare la luna. E gli autori, di cui vedeva i nomi, sarebbero forse diventati “famosi” solo perché erano in vetrina? Gli era più necessario scrivere o diventare “famoso”?

Velocemente prese la strada di casa, sospinto da una forza irresistibile. Appena entrato telefonò al recapito dell’azienda, lasciò un messaggio in cui diceva che il lavoro non gli interessava più. Poi si sedette al suo tavolo, e cominciò a scrivere. Tutte le storie accumulate in un anno gli premevano dentro, tutti i personaggi pensati si affacciavano a pretendere giustizia, gridavano al tradimento.

Scrisse fino a notte inoltrata. Quando si alzò dalla sedia andò alla finestra, l’aprì: il lago increspava le acque, che in tenui fruscii, al ritmo di un respiro, accarezzavano la riva. Sull’altra sponda le luci si indovinavano appena.

Una immensa felicità lo invase pian piano, mentre il mondo reale si allontanava da lui: il piccolo pesce era tornato nella sua acqua, e lì sarebbe rimasto, fino al compimento del proprio destino.

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