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Libri

STAGIONI DELL’UOMO

DINO AZZALIN - 16/03/2018

azzalinSe si vogliono ricercare le ragioni sulla scrittura del “Pensiero della semina” appena edito da Crocetti di Milano (l’editore di poesia più riconosciuto in Italia), almeno che ne esista qualche vaga necessità, si devono ritrovare nella preghiera che la terra rivolge con le sue offerte all’Universo, perché ogni seme dia i suoi frutti ciascuno secondo la sua specie (Genesi). Forma assoluta d’amore, che solo il Creato concepisce, anche quando il seme è secco e non darà frutti o peggio ancora non genererà altri semi, senza cesure né censure, come l’acqua e il sole, con nessun’altra distanza (o differenza) che quella tra l’uomo e l’infinito.

Questo è il compito della semina, generare altra vita con la luce del sole e l’abisso della terra, in modo naturale senza distinzione di latitudini o di materia vivente. L’esergo iniziale della Genesi è preciso e ne indica la sostanza del libro:“Ognuno secondo la sua specie”e Matteo l’evangelista nel suo capitolo 5 rincara la dose dicendo “…egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti…” E che non si tenti di fare altro, semplicemente applicare al linguaggio il significato della cose della vita. Anche le più diverse, le più scellerate o i semi che non germogliano, o peggio abortiscono il frutto sperato o generano abomini: la perfezione della semina non è mai nel seme/ ma nella speranza. (pagina 20). Perché nascono da un concetto mortale e imperfetto, così come è il viatico di ogni creatura vivente, e si evolvono da una cellula “normale” soggetta a invecchiamento o verso una “pazzia biologica” che genera raptus o tumori.

Il “Pensiero” non è altro che la Poesia che pone rimedio a questa imperfezione umana attraverso la parola poetica, unica e insindacabile espressione dell’indicibile. La Natura confluisce nella Poesia, come nel solco il seme, come nella vela il vento, e trasforma anche l’esperienza della parola in energia positiva, che diventa linguaggio, viaggio, e riflessione profonda. Ma anche occasione e opportunità d’amore, L’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso XXXIII,145) è l’ultimo verso del Paradiso di Dante, che si pone dentro il dualismo del libro e che dipana le ragioni dell’uomo e quelle della volta celeste. La tecnica del linguaggio è un sistema complesso di figure retoriche, dall’endecasillabo, al novenario, dalla metafora alla terzina, ma anche enjambement, che ogni 25 millisecondi ad ogni capoverso, propone un impulso di impermanenza nel percorso inafferrabile del verso successivo. In realtà questa raccolta di poesie è la condizione lirica di ciò che avviene nel suolo-anima-nido, dentro cui il seme attiva il segnale del germoglio e ne orienta la crescita. L’idea fondamentale dell’opera insiste sul riferimento biografico, l’impegno e la solidarietà umane, il senso profondo delle radici, e la sperimentazione formale del canto, che sancisce “lo stretto legame tra l’esperienza reale e la poesia (Sereni)”. Questo però non ne intacca il valore, l’opera deve rimanere distante dal dato biografico (Preti). Dio cambia registro ogni giorno della creazione, e la poesia lo fa in ogni istante della sua creatività, interroga la terra sul suo futuro, sul presente, nel buio celeste, che è poi una richiesta adorante di frutti (i figli) “Dio mio, fa’ che non finisca, che cresca,/ che non sia preda del vento o delle ortiche,/ che non marcisca, questo seme caduto/ in una notte d’amore…”(pag.53) che sia compatibile con il vivere umano (Sexton) e non con un semplice sopravvivere biologico. “Il seme è la previsione del futuro/ l’ipotesi segreta dei suoi cotiledoni/lo smarrimento precoce dei pollini/ il verde reticente dell’erba/, il rosario smarrito della pioggia/ l’adorazione incondizionata del sole”(p.58).

 I frutti e i viventi in questo poema nascono per amare Dio e gli uomini (e le donne) da lui creati, per fare di ogni germoglio un seguito di sole e di ogni foglia un senso profondo che ristabilisca un rapporto di equilibrio tra la natura e l’uomo da tempo interrotto dalla barbarie delle immedicabili ferite che l’uomo ha inferto ad aria, acqua, suolo (Zanzotto). Qui è lo stesso humani generis di “Dissipatio Hg” (Morselli) nella pausa poetica a riprendere il dialogo con il creato “…con uno sguardo nel vuoto pneumatico all’orizzonte alto nell’Infinito cielo…” (Holderlin)

Il tempo è fisso nella sua tragica perfezione, l’energia è la variabile, la sua musicalità, che converge o vorrebbero comporre un processo combinatorio tra il mondo multiforme e complesso dell’eros e il numero limitato di parole di cui dispone la poesia. Da qui nasce una difesa verso questo limite espressivo da parte del poeta (che va disgiunto sempre dalla sua vita reale), che vi oppone un numero finito di suoni variamente combinati i quali danno origine al vero senso del verso: dire la vita attraverso l’esperienza! Quandodire” significa esondare oltre gli argini del dicibile cercando di afferrare non l’acqua, ma l’energia della corrente. La parola lo fa cercando le minime cesure quotidiane, come un respiro pulsante di ogni creatura sia essa di origine del regno animale che vegetale, dentro cui emozioni “occulte” diventano cartine geografiche della memoria. Il visibile e l’impudico, sono richiami all’infanzia e quella incontaminata “contumacia” biologica dei sensi, che hanno i prodotti “prima dell’uso” (Viviani), prima ancora che le sensazioni diventino parole. Le ragioni delle piante e degli arbusti prima ancora dei profumi, le aree della libertà e dell’amore prima che diventino amore, figli, altri steli, altre vite. Insomma una pulsione istintuale, vergine, limpida, prima della ragione e del ragionare. Forse è stato un prendere i sogni per le ali./ Ma ho posseduto tutto, come se fosse vero.(pagina 53) Ed è solo una minima parte, come in ogni viaggio mediatico, del lavoro che ho voluto rappresentare, quattro sezioni del libro, per quattro stagioni che sono anche quelle della vita dell’uomo e i periodi in cui viene suddiviso l’anno in relazione ai passaggi del Sole agli equinozi e ai solstizi, semina e mietiture, nascita e maturità, papaveri e spighe. In realtà c’è un pensiero ossessivo dentro cui stanziano le radici della mia infanzia (la più vera di tutte le età), le più alte riflessioni sul senso e il destino dell’umanità: l’immensità del cosmo dove il sacro e il divino non sono più compatibili con le risposte razionali e scientifiche. Luoghi, germinazioni, fioriture sono legati alla dimensione pura delle parole, che non è altro, almeno per me, che l’origine (e la permanenza) indissolubile, del nostro mistero esistenziale. E che è molto più semplice e complesso di un ossimoro. La perdita dell’Eden (l’infanzia), è la pura metafora del crescere, dove il rimpianto non dà via di scampo nemmeno nel rimorso degli eccessi del piacere, dove Leopardi ed Epicuro ci suggeriscono che l’uomo desidera in maniera categorica un piacere infinito senza limite per intensità e durata, di una semina a volte indecifrabile e coerente, dentro cui si staglia, all’orizzonte, il misterioso perpetuarsi della semina, dove ogni vita che si versa nell’altra, genera un percorso segreto di eternità. (Otello: ti ho baciato prima di ucciderti, oppure: uccidendo me stesso ti bacio…) Un cammino patetico del seme nella sua solitudine ancestrale, dove non c’è altro riferimento che il buio dell’amnios e il dolore della nascita, in una metafora ripetuta con le stesse parole delle vicende umane e quelle della natura, che per un palindromo assurdo sembrano ricalcare le stesse fisionomie “astrattive” e reali di un mondo possibile: quello del libro. Ogni pagina con un capoverso che a volte non significa che se stesso, si rappresenta in maniera beffarda nella sua ingenua solitudine e nell’incedere del progetto poetico. Il miracolo del germoglio altro non è che un sogno divino di eternità e che si perpetua allo schiudersi di un fiore o di una gemma lignea sul ramo. E anche di errori che la natura fa sia nei confronti dell’armonia che della bellezza, viene ripagata da una moltitudine perversa di cheloidi, cicatrici che riparano gli orrori perpetuati anche dall’uomo non solo con le guerre, o con la fame e la povertà che sfigurano la storia umana e la sua geografia, ma soprattutto con l’indifferenza endemica, vera piaga di questa società. “L’Africa non è mai stata degli africani,/ vi prego, abbiate pietà della sua gente/ che si nutre di ninfee e delle radici di palude…” La fioritura di una Natura che coi suoi granuli pollinici non conosce resistenze e fa nascere fiori tra le macerie e bambini tra le barbarie umane, questo è il vero miracolo dell’Universo, con il suo “Pale blu dot” un pallido punto blu sperduto tra gli abissi del creato che sta a significare l’unica vita ivi conosciuta, quella della Terra, coi suoi colori, le sue radici, la sua bellezza e con la sua ostinazione (eterna) a sopravvivere, nonostante i tentativi dell’uomo (mortale) di distruggerla.

Il pensiero della Semina
di Dino Azzalin
Editore Crocetti-Milano
pagine 84, euro 12
 
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