Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Il racconto

PIAZZETTA SAN LORENZO

GIOVANNA DE LUCA - 06/04/2018

panchinaCammino più velocemente che posso.

Sono le dodici e trenta di una domenica, e piove a dirotto. La piazza davanti alla basilica della città è deserta, i negozi chiusi amplificano una sensazione di vasto abbandono. Ci sono solo io, a quest’ora, in questa città? Sto attenta a dove metto i piedi, a testa china. Percepisco la forza delle costruzioni intorno, quasi lo spazio tra me e loro fosse un vuoto pieno di impalpabili eppur reali presenze.

Quando c’è gente che si muove o cammina non si fa caso ai portici, ai palazzi, li si dimentica: sono lo sfondo della nostra quotidianità, la scenografia entro la quale si intrecciano le nostre parole, le nostre vite.

Ma da una piazza così, deserta, emerge la potenza della materia, qualcosa di imponente e segreto si sprigiona dai portici, dalle case, dalla facciata della chiesa.

Penso che la materia abbia una voce: quella inchiodata nella pietra, di chi quegli edifici ha costruito, di chi forse nell’opera ha lasciato anche la vita. Non mi riferisco alla voce della Storia, ai monumenti archeologici che si onorano in tutto il mondo, ma a qualcosa di più intimo e nascosto, ad una mano, ad un volto, ad un corpo che alla costruzione ha dato se stesso. Uomini, anime. In mattine come questa, quando non c’è nessuno in giro e il silenzio conosce solo la musica della pioggia, tale voce può manifestarsi a chi voglia ascoltarla.

È quella che sale dalla piccola panca di pietra della piazzetta San Lorenzo, che sporge dal muro della basilica. Stamane non vi siedono l’immigrato, o il ragazzo o la coppietta, ma essa porta in sé tutti i corpi, e i pensieri, di chi vi ha sostato. Il muro da cui sporge tondeggia come la carezza di una mano su un volto, e contiene, all’interno, il divino.

Penso alla voce delle pietre mentre vado alla breve svolta, a sinistra. Ed ecco, come se mai li avessi visti prima, s’alzano a ombrello due ulivi. Emergono, di fronte alla panca di pietra, come due fiori sullo stelo. Folti e rotondi, leggermente inclinati sui passanti, ne tutelano il percorso, lo addolciscono.

Allora mi fermo, torno qualche passo indietro. Osservo. Questo è un piccolissimo passaggio di città, come accade nei centri storici. Ma stamattina, come solo nei piccoli passaggi dei centri storici delle città accade quando sono deserti, si è manifestata una magia, complice la voce della pioggia.

Dai tetti, dai muri, dai portoni, financo dal selciato, fitte si sono levate presenze, e ad essa hanno affidato le loro voci. Infinite e molteplici, un incommensurabile coro di voci raccolto nel bruire dell’acqua che chiede ricordo, rispetto, culto della memoria.

Mi fermo sotto un ulivo, gocce attraverso le fronde chiosano la preghiera. Ogni goccia una voce, una delle mille e mille di chi operò in questo luogo, una delle moltissime che forse, una sera o un giorno, disse su quella panca : “Ti amo,” per la prima volta.

Sto ferma fino ai brividi di freddo, a osservare la grazia con cui il tronco degli ulivi esce dal terreno. Penso alla sacralità del lavoro dell’uomo, all’infamia di chi, per lucro o per altro, lo distrugge.

Ogni goccia una voce, una delle mille e mille di chi operò in questo luogo,Una delle moltissime che forse, Una sera o un giorno, disse su quella panca : “Ti amo,” per la prima volta.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login