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Souvenir

PARLA COME MANGI

ANNALISA MOTTA - 08/02/2019

pin-giromettaMe ne accorgo chiacchierando con gli stranieri: che sia un polacco che pure vive qui da anni, un olandese che lavora al Centro (ex Euratom), una vicina francese che arriva d’estate. Mi accorgo di come il nostro parlare quotidiano sia infarcito di metafore e modi di dire, il che rende faticoso il discorrere con chi non è italiano, o addirittura lombardo. Perché ciascuna regione ha i suoi, a prescindere dal dialetto, anzi quasi ogni città, ogni paesello.

Esempi? “Non lo vorrei nemmeno dipinto”, con la variante ligure “nemmeno in chiesa a pregare per me”; avere le mani bucate, buon naso, spalle larghe, lingua lunga, mani leste, pelo sullo stomaco, non avere tutte le rotelle…; perdere la trebisonda, la bussola, il ben dell’intelletto, il tram…; cavalcare la tigre, saltare il fosso, mangiare a quattro palmenti, digerire i sassi, bruciarsi le ali, far di ogni erba un fascio, mostrare i denti, chiudere un occhio…; oca giuliva, cervello fino, coda di paglia…. Si potrebbe riempire un vocabolario. Magari ne esistono già.

E poi c’è il lessico familiare: ogni clan si tramanda di padre in figlio frasi storiche, legate a momenti e personaggi che per gli altri, gli estranei, sono incomprensibili. Noi si sogghigna, gli altri restano interdetti.

A casa nostra, dove si fondevano tradizioni e dialetti della metropoli – da parte del papà – e della Valganna – da parte della mamma – ne avevamo tutta una scorta. “Te paret ‘na roeda malvuncia” rimbrottava la nonna quando noi bambini si faceva la lagna, come il gemito di una ruota male oliata.

E se storcevamo la bocca davanti al piatto, subito arrivava un lezioso “Mi sunt donna….” che gli altri completavano con “..che el risott el m’ingossa”: ricordo dell’uscita di una parvenue, cliente di un ristorante di lusso, che per darsi arie rifiutava il risotto, troppo plebeo, sventolandosi col ventaglio. E se bruciava il soffritto, tutti a canticchiare: “Hinn brὕsé, carbunisé…”, parte di un dialogo tra zitelle che bucano l’unica occasione di sposarsi (un’altra volta ve la racconto).

Nelle discussioni accese, quando si rischiava di trascendere, qualcuno sempre usciva con un bel “Tii, tàs”: dalla famosa virago conosciuta in vacanza, che apostrofava così il povero marito quando cercava di intervenire nel discorso. O magari il papà arrivava a casa con torta e spumante, e noi a lambiccarci su quale compleanno avessimo scordato. Ma no, diceva lui, oggi è Saint Mὕ d’avèz, un santo dall’improbabile nome “Cambiamento d’abitudine” (e raccontava che in canton Vaud, dove aveva passato gli anni di guerra, fosse il pretesto per far festa senza motivo).

Anche l’opera lirica aveva il suo spazio: “Piangi, piangi!”, modulato su una quinta, era lo sbeffeggio preferito di fronte alle lacrime di un capriccio; oppure “Che gelida manina!” quando il termometro scivolava sotto zero.

Se avevamo il broncio, la mamma subito: “Mimmino è scontento, di cosa non sa…”, dal personaggio di un libretto illustrato; utilissimo anche per lamentarsi del tran tran: “…son tutte davvero bellissime cose, ma SEMPRE LE STESSE diventan noiose!”.

E a me che da piccola pare fossi incontentabile, anche da sessantenne mi sentivo fare il verso, con la frase storica che finalmente avevo pronunciato a tre anni: “Cuntenta l’Agna!”

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