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Attualità

PROPOSTE PER LA CLASSE DIRIGENTE

ROMOLO VITELLI - 07/07/2012

In questi torride giornate, mentre il Paese è sull’orlo dell’abisso e in Egitto vincono i Fratelli musulmani, la nostra politica è tornata ad arroventarsi con polemiche pretestuose e strumentali nei confronti del capo dello Stato per indebolire l’uomo, le istituzioni e lo stesso governo Monti. Grillo e Berlusconi, i due demagoghi populisti di turno, vogliono ritornare alla lira e fanno a gara nel lanciarsi all’assalto del potere; l’ex-premier, l’uomo politico più screditato d’Europa, è tornato in campo e vuole addirittura diventare presidente della repubblica o in subordine almeno ministro del tesoro; Renzi ha riunito mille amministratori per prepararsi a vincere le primarie, sferrando l’ennesimo assalto al “vecchio” gruppo dirigente del Pd, parlando di Bearzot e dei Righeira, senza proporre alcuna soluzione concreta per il Paese. Tutto ciò fa dire a Ian Fleischhauer, l’editorialista di Der Spiegel: “Purtroppo sembra che la maggioranza degli italiani non sia consapevole delle proprie responsabilità”.

Sui quotidiani diversi analisti politici (Galli della Loggia, Scalfari e Gotor, solo per citare i più noti) hanno analizzato questo bizzarro dibattito, ricavandone la netta convinzione della confusione che regna tra le varie forze politiche, incapaci di muoversi in una contesto nazionale e globale, e di essere all’altezza del drammatico momento. A questo punto però, poiché questa classe dirigente non viene da Marte, ma è espressione di una cultura politica tutta italiana, si impongono alcuni interrogativi di fondo: perché è incapace di dare risposte ai problemi? E ancora, la formazione culturale scolastica e politica ricevuta l’ha fornita di strumenti di analisi e progettazione in grado di analizzare e far fronte alle sfide del Terzo Millennio o si tratta di una cultura prevalentemente “retorica, viziata da un impianto ancora troppo mnemonico e contemplativo,” come dice Tullio De Mauro?

Nel rispondere ai quesiti posti farò riferimento alla riflessione proposta nell’interessante libro: “Pensare l’Italia,” Einaudi, 2011, da due intellettuali, diversi per studi, formazione e concezione del mondo: Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone, senza addentrarmi però nella crisi delle ideologie e dei partiti, né riflettere sull’autoreferenzialità delle classi dirigenti.

“Dopo la sua costituzione lo Stato nazionale – dice Galli della Loggia – istituendo un sistema di istruzione e una università finalmente moderni, fu all’origine di una fioritura culturale che può dirsi straordinaria, che bene o male ci riportò ai livelli europei. (…) Traguardi su cui rimanemmo attestati, checché si possa e si debba dire del fascismo, anche negli anni tra le due guerre”.

“Nella cultura italiana del secondo dopoguerra – aggiunge Aldo Schiavone – si sono diffuse due tradizioni storiciste: una di (più o meno diretta) derivazione idealistica, l’altra interna al marxismo, il suo cuore si trovava nella lettura storicista di Gramsci proposta da Togliatti attraverso la prima edizione dei Quaderni. Direi che nel complesso entrambe le versioni hanno dato miglior prova di sé sul terreno della ricerca storica, che non su quello della riflessione filosofica. Quest’impulso propulsivo, però si è andato esaurendo alla fine degli anni Sessanta. A cominciare da allora nel campo della cultura dobbiamo progressivamente registrare un vuoto, una perdita di terreno, una mancanza di capacità realizzativa e organizzativa. E una crisi innanzitutto dell’intero sistema dell’istruzione e della formazione, che negli ultimi tempi è divenuta rovinosa. Noi avevamo un’eccellente scuola d’elite – continua Schiavone – con un forte contenuto classista; l’abbiamo smantellata, senza riuscire a costruire al suo posto un’efficiente scuola di massa, con percorsi privilegiati per i più meritevoli e ricchi di talento, né aggiungerei formando. Ma il fallimento è innanzitutto il risultato di una mancanza di investimenti che grida vendetta e ha indotto una generale rovina. E la miopia delle classi dirigenti italiane e del loro personale di governo che ci ha portato dove siamo. E se abbiamo scambiato l’eguaglianza delle opportunità con l’appiattimento delle individualità e la dequalificazione della funzione pedagogica, è in primo luogo perché abbiamo costruito nel tempo un rapporto micidiale fra rassegnazione alla scarsità delle risorse, povertà delle retribuzioni (per i professori), appiattimento delle carriere e degrado nella qualità dei servizi erogati”.

Tutto ciò non poteva non avere ripercussioni negative sulla stessa formazione di base degli insegnanti, e sulla cultura scolastica in genere, come già denunciava negli anni ’70, in un pregevole libro: “Progettazione didattica,” Michele Pellerey, professore ordinario emerito di didattica nella facoltà di scienze dell’educazione dell’Università pontificia salesiana. Dice lo studioso che gli insegnanti italiani sono diversi per status, ma sono tutti accomunati da una “comune formazione razionale,” che impregna ogni comportamento non solo didattico, ma anche culturale e relazionale”.

La conoscenza è “vista e posseduta, nel migliore dei casi, nella sua sola dimensione critica. Nella scuola secondaria, come nelle università, si sviluppa una formazione culturale di tipo critico-osservativo, quando non meccanico-riproduttivo al livello culturale prevale un’impostazione statica, osservativa, riproduttiva, al più interpretativa e critica. E viene così a mancare ogni prospettiva generativa. (…) Le discipline – diceva lo studioso – dovrebbero essere considerate soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione scolastica, non fini a se stesse ma come risorse cui attingere per l’educazione degli studenti”.

Ma che cosa è accaduto e accade purtroppo ancora oggi in verità nella pratica scolastica quotidiana, salvo lodevoli eccezioni? Che le materie nella pratica educativa sono state sempre viste e continuano purtroppo a esserlo, “come fini a se stesse, e mai nel loro valore strumentale”.

Vediamo, solo per fare un esempio, come si insegnano la filosofia e la letteratura nelle scuole.

La filosofia viene insegnata per lo più non per “insegnare a pensare – come voleva Immanuel Kant – ma per fare “apprendere pensieri”. La stessa lingua viene insegnata per lo più nella sola dimensione letteraria e non come strumento per parlare del mondo e se vogliamo per cambiarlo. “L’insegnamento della filosofia nelle scuole italiane – come ci ricorda il compianto filosofo Franco Volpi – ha sempre privilegiato un tipo d’insegnamento astratto, volto a mettere a distanza la vita stessa per osservarla in una considerazione teoretica neutrale e “reificarla”, ossia ridurla a cosa tra cose, oggetto tra oggetti”. Quindi siamo molto lontani dalla concezione di Ludwig Wittgenstein secondo cui “il compito della filosofia è insegnare alla mosca ad uscire dalla bottiglia”; e/o alla definizione del filosofare del professor Abbagnano, per il quale “filosofare significa per l’uomo, in primo luogo affrontare ad occhi aperti il proprio destino e porsi chiaramente i problemi che risultano del proprio rapporto con se stesso con gli altri uomini e col mondo. Significa, non già limitarsi a elaborare concetti, a ideare sistemi, ma scegliere, decidere, impegnarsi, appassionarsi: vivere autenticamente ed essere autenticamente se stesso”.

Bisogna concludere – seeguita il professor Volpi sulla scia della riflessione dello scomparso Pierre Hadot – che “la filosofia non è soltanto la costruzione di un edificio teorico indifferente alla vita, ma è anche comprensione pratica della vita che le dà forma e la orienta. È saggezza e cura di sé: una dimensione del sapere filosofico, questa, che la tradizione accademico-universitaria ha trascurato, ma che si tratta di ritrovare e rinnovare”.

E che succede nel versante dell’insegnamento della letteratura? Dice Paolo Mazzocchini: “Che tra i guasti della nostra scuola ci fosse anche un insegnamento della letteratura piuttosto sbilanciato sul versante dell’analisi tecnico-formale del testo non è una novità per quegli insegnanti i quali si trovano quotidianamente a constatare la disaffezione alla lettura di opere narrative da parte della maggioranza degli studenti medi, in un’età nella quale invece il gusto per l’affabulazione dovrebbe essere naturalmente spiccato”. Uno dei più grandi maestri del formalismo Tzvetan Todorov – continua Mazzocchini – ha pubblicato un libretto (La letteratura ridotta all’assurdo; Oltre la scuola) in cui denuncia con forza proprio questo esiziale scambio dei mezzi con i fini. Todorov critica la pratica scolastica francese, ma il discorso vale anche per la realtà italiana. Quello che doveva essere uno strumento (l’analisi tecnico-formale di un testo) per arrivare al ‘messaggio’ è diventato ormai, secondo Todorov, lo scopo stesso della didattica letteraria e ha finito sia per oscurare “la migliore comprensione dell’uomo e del mondo”.

I guasti di questa impostazione scolastico-culturale hanno avuto un riflesso negativo anche nelle tracce degli esami di Stato 2012. Secondo il professor Armando Massarenti (il Sole 24 ore, 25 giugno, in Maturità uguale antimodernità?) “Tre almeno sono le ‘tracce’ nei temi di questa maturità incise nel solco dell’ antimodernità in cui è immersa la cultura italiana: quella sul “bene comune”, quella sulle “responsabilità della tecnologia e della scienza” e il brano di Aristotele per la traduzione dal greco”.

Giovanni Mosca nei suoi “Ricordi di scuola” diceva “che passato appena qualche giorno dall’esame di maturità, per la generalità della popolazione italiana più istruita (ingegneri e contabili a parte) dei tredici lunghi anni di aritmetica, algebra, geometria non restava più niente tranne la memoria di un’arida distesa desertica da cui diceva spuntava un unico fiorellino: i due versi: “Della sfera il volume qual è?/Quattro terzi pi greco erre tre”.

 Il discorso fatto sinora sulla crisi della cultura scolastica, emblematicamente e plasticamente riassunto dalla bella citazione di Giovanni Mosca, impone un interrogativo di fondo: come si esce da questo impianto platonico-contemplativo, verbalistico e mnemonico che affligge la scuola del nostro Paese e che è in gran parte responsabile della formazione della sua classe dirigente politica, non all’altezza dei tempi e incapace di risolvere i problemi?

Tullio De Mauro non ha dubbi e dice che se si vuole operare affinché questa crisi del sistema politico italiano possa avere uno sbocco positivo e costruttivo è necessario che “la scuola della ripetizione e della contemplazione deve cedere il posto alla scuola dell’intelligente operare, la Hörsaal deve essere sostituita dall’Arbeitssaal, l’auditorium dal laboratorium,” riconsiderando innanzitutto le discipline nel loro valore strumentale, come risorse per far crescere e maturare gli studenti.

Perciò, per dirla con Giulio Ferroni, professore di letteratura italiana a “La Sapienza,” è necessario “ripartire dalla scuola e programmare una riforma scolastica seria, autorevole al fine di creare una scuola a misura del presente. Perché ripartire dalla scuola? In effetti – dice Ferroni – nella scuola che è il solo ambiente istituzionale, necessariamente frequentato dalle giovani generazioni, vengono a formarsi e a svilupparsi quei modelli di comportamento che dovranno fare i conti con il tempo che verrà. Questa deve riuscire a collegare in un nesso strettissimo coscienza del passato, esperienza del presente e prospettive per il futuro. In termini compatibili con diverse prospettive ideologiche e religiose”.

Ma accanto alla riforma della scuola occorrono un nuovo principio educativo e soprattutto un nuovo concetto di cultura, perché “Niente cultura, niente sviluppo”, ammonisce il recente “Manifesto per la costituente della cultura”, in quanto bisogna essere “consapevoli che l’idea di cultura include anche il modo di considerare le priorità strategiche dell’economia e della crescita. Nell’idea di cultura è compreso il bene comune, la tradizione, l’unicità dei saperi; insomma, la cifra stessa di civiltà e di cittadinanza di un intero Paese”.

Questo manifesto potrebbe essere un utile contributo alla formazione di una classe dirigente in grado di fare uscire progressivamente l’Italia dalla grave crisi che l’attanaglia e ridare una speranza e un futuro ai nostri giovani, futura classe dirigente del nostro Paese.

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