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Attualità

INFANZIA IN ARGENTINA

ROMOLO VITELLI - 13/07/2012

Mia madre è nata nel 1897 a Roldan in Argentina, tra Rosario e Santa Fe, dove mio nonno, emigrato da Atessa, in Abruzzo, aveva messo su una fattoria. Coltivava, insieme ai suoi contadini, noccioline, mais e allevava animali.

I genitori della mamma erano partiti come tanti, verso la fine dell’Ottocento, nella grande emigrazione verso il Sud America, che aveva spinto tanti italiani ad allontanarsi in cerca di fortuna in altri continenti. Ma a spingere allora mio nonno a emigrare, più che le misere condizioni di vita in Abruzzo, credo siano stati il suo spiccato senso dell’avventura e la sua inquietudine caratteriale.

Mia nonna mi raccontava spesso della loro vita dura nei primi anni, in una terra straniera, e della nostalgia per l’Italia, per la sua Atessa e i suoi parenti e amici. Ma pian piano si erano ambientati e la loro “fazenda,” come chiamava ancora la sua fattoria, si ampliava e la vita procedeva laboriosamente, ma senza grossi problemi.

L’infanzia, nella campagna argentina, di sua figlia Maria, così si chiamava la mia mamma, la primogenita di appena sei anni, con la carnagione chiara e i capelli rossicci, si svolgeva serenamente e allegramente. Mi raccontava dei giochi e delle corse che faceva la sua bambina con i due cani della fattoria e con la cavalla preferita da mio nonno che, quando era libera nel prato, amava spesso giocare con mia madre. La cavalla, chinando la testa sino a toccare l’erba le permetteva di afferrarsi alla criniera; poi drizzando e girando con uno scatto il collo la faceva volare e saltare sulla groppa e si lasciava cavalcare a pelo. La cavalla però non si allontanava dalla casa colonica, ma rimaneva nel prato vicino a trotterellare dolcemente con in groppa la “Mariuccia”, mentre i cani, abbaiando festosi, le correvano a fianco.

Mia nonna mi raccontava che spesso era in ansia perché sua figlia era una bambina coraggiosa e intraprendente, ma un po’ “cocciutella” che si allontanava spesso dalla fattoria a piedi con i cani.

Mia madre era molto legata al suo papà, che le voleva molto bene e spesso, quando mio nonno doveva recarsi in visita da qualche agricoltore amico vicino o in paese, la portava con sé sul calesse.

Un giorno, dovendo andare a sbrigare degli affari a Rosario, aveva legato la cavalla al carretto, ed era entrato in casa a salutare la nonna, prima di partire. Quando uscì vide che mia madre si era già piazzata sul calesse, per andare con lui. Ma il papà, prendendola in braccio e posatela a terra, le disse che non poteva portarla quella volta con sé perché sarebbe tornato a casa troppo tardi, e dopo averle raccomandato di rientrare in casa e di restare con la mamma, si avviò con il calesse per la strada alberata.

Si stava facendo sera e mia nonna, non vedendo la sua primogenita in giro, aveva pensato che, come le altre volte, fosse andata con il suo papà in paese o a fare un giretto con i cani. Ormai era buio pesto e mio nonno era a circa mezzo chilometro dalla fattoria. La cavalla trotterellava verso casa stancamente e tutta sudata, di colpo si arrestò e non volle più andare avanti. Il nonno la frustò più volte, e la incitò con la voce, ma la cavalla imperterrita e impassibile non si mosse, lanciando dei forti nitriti.

Mio nonno, capì allora che qualcosa impediva l’andare, così scese dal calesse con la lampada a petrolio per vedere di che cosa si trattasse.

Non voleva credere ai suoi occhi: sul sentiero, davanti agli zoccoli della cavalla, c’era la sua bambina che dormiva della grossa con un ditino in bocca, come un angioletto. Aveva seguito il calesse per andare dietro al suo papà, piangendo probabilmente e poi stanca si era appisolata in mezzo al sentiero. La sua amata cavalla l’aveva riconosciuta e nonostante le frustate non aveva voluto proseguire per non calpestarla.

Mia nonna mi raccontava sempre questa storia dolcissima.

Qualche anno più tardi mio nonno poi, spinto forse dalla nostalgia per il suo paese d’origine, tornò in Italia. Erano nate altre figlie nel frattempo: in tutto erano sette donne, che fece studiare e diplomare in collegio. All’inizio del Novecento, in un paese del centro Italia, fare studiare le donne era una cosa un po’ disdicevole, insolita e rivoluzionaria, perché le “donne dovevano stare in casa”, ma mio nonno era un tipo abbastanza alternativo e non gli importavano le critiche che i paesani gli rivolgevano.

 Nella foto: piroscafi nel porto di Genova in procinto di partire con gli emigranti in Argentina.

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