Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Divagando

QUANDO “STRANIERI” ERAVAMO NOI ITALIANI

AMBROGIO VAGHI - 21/09/2012

La recente commemorazione del cinquantenario della tragedia di Marcinelle, dove in quella maledetta miniera belga di carbone rimasero prigionieri e trovarono la morte ben duecentoquarantadue minatori in gran parte italiani, ha riportato alle luce quanto fosse dolorosa la vita dell’immigrato. Tra rinunce, umiliazioni, sfruttamento e anche pericoli di morte. Cioè, quando “stranieri” eravamo noi italiani. E mi è tornata alla mente un’esperienza drammatica vissuta personalmente.

A Varese in quegli anni era attivo il “Box Club Varese-Spumador”, una organizzazione sportiva che pure sul piano dilettantistico portava avanti una tradizione pugilistica che qui aveva creato ottimi pugili come Saruggia, Bignamini e Calzavara. Bignamini faceva da maestro e tra sacrifici economici personali alla presidenza del club, poi diventato “accademia boxe Varese”, si erano alternati Aldo Marabini e il cavalier Aldo Ponti, un industriale di Gazzada mancato recentemente. Factotum l’Orlando Mazzola ed anima l’infaticabile Franco Volonterio, al quale è dedicata l’attuale palestra pugilistica comunale di Bizzozero, ora occupata dai “Panters”. La società aveva allevato un ricco gruppo di ottimi pugili. Alcuni come Capretti e Facchinetti vestirono la maglia azzurra. Quando poi la Ignis di Giovanni Borghi sciolse la sua squadra di pugili dilettanti, a rinforzare il Boxe club Varese arrivarono altri forti atleti come Antonio Budano e Papadia.

La società era quindi in grado di ottenere buoni successi nel nostro Paese e di organizzare anche trasferte all’estero per incontri a livello di club. I varesini si portarono nella vicina Svizzera, in Francia, in Jugoslavia a Pola e a Zagabria, in Cecoslovacchia a Diecin. Giunse un invito a recarci in Germania a Pforzeim, una cittadina non lontana da Karlsruhe, tutta dedicata alla lavorazione dell’oro e della gioielleria. Come si realizzò quel contatto non ricordo. Là risiedeva un medico italiano che collaborava con una società pugilistica locale. Probabilmente aveva anche pensato che portando una squadra di pugili italiani il successo, anche di cassetta, fosse assicurato. Infatti in città e nelle fabbriche del comprensorio i lavoratori italiani erano assai numerosi e non sarebbero mancati all’evento sportivo.

La proposta venne accolta con entusiasmo a Varese, ma anche con una certa preoccupazione. Nel pugilato dilettantistico era impossibile conoscere il valore dei singoli pugili, sopratutto se stranieri, per cui fu grosso l’impegno nostro per presentare una buona squadra con tutti i pesi, che ci evitasse per lo meno una brutta figura. A questo proposito il delegato provinciale della Federazione pugilistica Renato Crova si dette da fare per ottenere dal “Regionale” l’autorizzazione a rinforzare la nostra squadra con qualche ottimo pugile prestato da altri club.

Veramente calda fu l’accoglienza dei dirigenti del club tedesco. Gli incontri si sarebbero svolti in un palazzetto dello sport. Poco prima dell’inizio pensammo di scendere negli spogliatoi del semi interrato per incoraggiare i nostri ragazzi. Trovammo il corridoio, le scale e l’ampio spazio antistante pieni di vocianti immigrati italiani. Al primo momento la cosa ci inorgoglì. Il successo di pubblico era assicurato. Ben presto però ci rendemmo conto che quegli italiani erano scarsamente appassionati di pugilato né erano lì solo per salutare degli ospiti connazionali. Si sentivano inviti ai pugili a farsi vedere ma anche urla minacciose. Picchiateli questi tedeschi. Addirittura qualche grido: “uccideteli”. Una situazione drammatica. Erano presenti anche alcune donne. Una attempata, di nero vestita con fazzoletto in testa, si faceva sentire in stretto dialetto meridionale: “Ho speso ben nove marchi per venirvi a vedere. La boxe non mi interessa, ma dovete punirli questi mascalzoni”.

Ad un tratto un piccolo pugile, un peso gallo prestatoci da Milano, salì su di una panca per farsi sentire e, in mezzo dialetto siciliano, riuscì per il momento a calmare gli animi. “Vi prometto che ce la metteremo tutta per vincere, faremo il nostro dovere di italiani e di patrioti”. Parole di questo genere assai condite di nazionalismo non proprio corretto ma che però coglievano la dolorosa preghiera. Nell’occasione un immigrato italiano tra i meno agitati mi parlò delle dure condizioni di vita dei nostri lavoratori, molti ancora alloggiati in baracche, e delle umiliazioni morali cui erano sottoposti. Mi spiegò che una nostra sconfitta avrebbe significato per molti il giorno dopo, al ritorno in fabbrica, essere oggetto di altre vergognose umiliazioni. Oltre alle solite. Italiani traditori, lazzaroni, incapaci, perdenti. Ecco la ragione di quell’assembramento e delle grida poco civili.

Finalmente con le tribune stipate all’inverosimile, con grande presenza di italiani venuti anche dai centri vicini, si poté cominciare. Un inizio divertente. Salivano sul ring coppie di ragazzetti con guantoni più grossi di loro. Ovviamente non erano combattimenti, quasi balletti con momenti comici. I pugni erano buffetti e l’esibizione puramente tecnica. Erano il “vivaio” del club, tra l’entusiasmo soprattutto dei genitori presenti.

La cosa ci sorprese perché in Italia la Federazione pugilistica autorizzava l’entrata nelle palestre soltanto ad età assai maggiore. Poi gli incontri. Il primo durato pochi minuti: KO del tedesco mandato al tappeto. Così il secondo; al terzo e al quarto ancora vittoria nostra ai punti. Al quinto un’ altra vittoria per KO. Il tutto tra il tripudio degli immigrati nostri connazionali. C’era una evidente superiorità tecnica da parte dei nostri ma l’agonismo profuso era certamente il massimo. Mantenevano la promessa fatta negli spogliatoi a chi li aveva quasi pregati di vincere.

Nell’intervallo io e Franco venimmo avvicinati dal medico italiano che aveva promosso l’evento che ci pregò di invitare i nostri pugili a “contenersi”. Ci guardammo negli occhi. I nostri sguardi dicevano la stessa cosa: chi mai potrebbe dire ai ragazzi di prendersi pugni per far piacere all’avversario ?

La seconda parte ci riservò un incontro tra i più curiosi. Gli incoraggiamenti e gli applausi al nostro pugile non pervenivano soltanto dal settore italiano ma in buona parte anche da quello dove sedevano i tedeschi. Anzi da questo si alzavano grida per noi incomprensibili ma dal tono per nulla amichevole. Eppure il pugile teutonico che si batteva sul ring non era niente male, anche se non più giovanissimo, finendo col perdere solo ai punti. Ci venne poi detto che quel tipo spavaldo e un poco sbruffone era niente meno che il comandante della polizia locale! Tutto spiegato, allora. Finimmo per non lasciare ai tedeschi neppure una vittoria: solo un pareggio.

Il giorno dopo contriti, con la coda tra le gambe, erano sopratutto i dirigenti del locale club pugilistico ma possiamo immaginare come rientrarono trionfanti al lavoro i nostri connazionali.

Credo che tutti quelli che hanno vissuto questa piccola avventura sportiva, dirigenti, pugili ed accompagnatori abbiano per sempre portato nella mente e nel cuore le imprecazioni e la preghiera di quei nostri lavoratori, avendo meglio compreso cosa volesse dire essere “straniero”.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login