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Editoriale

POVERI IN SPIRITO

LIVIO GHIRINGHELLI - 01/11/2013

E disceso con loro (Gesù) si fermò su un ripiano (Lc 6,17): questa la cornice delle beatitudini, che lo vede rivolgersi a una grande schiera di discepoli e a una grande folla di gente venuta da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone e il discorso si articola in quattro dittici antitetici, che esaltano la felicità tutta realistica dei poveri, degli affamati, degli afflitti, di quanti saranno odiati per il loro nome scellerato a causa del Figlio dell’uomo, di contro alle maledizioni pronunciate contro i ricchi, i sazi, i gaudenti, quanti sono gratificati da un giudizio generale favorevole (allo stesso modo, infatti, facevano i loro padri con i falsi profeti).

La prima dichiarazione di felicità riguarda i poveri, “perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20) e si tratta di una liberazione dal male tutta al presente, che avrà poi in seguito la sua pienezza nel futuro escatologico. In questo macarismo (dal greco makarios, beato) si unificano spiritualità e storia secondo la logica dell’Incarnazione. La riprovazione della ricchezza richiama una grande tradizione come quella profetica, chiara ed esplicita nella critica sociale (vedi il libro di Amos).

Secondo Matteo (cap. 5) Gesù alla vista delle folle salì invece sul monte, scegliendo simbolicamente la montagna per accostarlo idealmente al Mosè del Sinai e porlo in cattedra circondato dai discepoli e rivolto in basso alla moltitudine accorsa. Qui, rispetto a Luca, si ha l’aggiunta di poveri in spirito (to pneumati). Si susseguono otto dittici inerenti alle varie beatitudini. Il taglio si fa ora più morale e spirituale e il passaggio dalla seconda persona plurale di Luca alla terza plurale di Matteo induce a una proclamazione più universale, rivolta a un orizzonte spaziale e temporale più ampio. La formula poveri in spirito ricorre in diversi scritti qumranici e spirito significa l’interiorità profonda della persona, oltre quella vaga spiritualità che si esprime nel distacco interiore dalle cose possedute materialmente. Nel lessico ebraico povero voleva dire l’indigente, il mendicante, chi è privo del necessario per vivere, chi è al limite della sopravvivenza, chi, schiacciato dalla prepotenza degli altri, è oppresso socialmente, ma al contempo si tratta dell’umile curvato di fronte a Dio, che ne riconosce la signoria sulla storia, sotto la tutela divina diretta (il povero del Signore, privo di protezione giuridica sociale).

I poveri sono al centro del programma missionario di Gesù, mandato a evangelizzarli. L’amore per i poveri non si riduce a filantropia, ma è al centro della fede stessa. I poveri sono un segno teologico. La prospettiva di Gesù non mira a definire uno status sociale, quanto a svelare il volto d’amore e di giustizia di Dio verso i poveri suoi prediletti. Il che comporta per noi una personale assunzione di responsabilità nei loro confronti. Povertà e sofferenza non sono il risultato di una punizione divina, la povertà è uno scandalo che coinvolge la libertà umana. Bisogna che noi passiamo dal considerare il povero come soggetto a diventare noi soggetto per il povero, dal concentrarci sulla povertà come oggetto d’analisi al vedere nel povero il soggetto di diritti. Contro le strutture socioeconomiche, che generano squilibri ed accentuano le divaricazioni tra ricchi e poveri, intese come strutture di peccato, alta e chiara si leva la voce della Chiesa con le sue Encicliche papali. Siamo chiamati a purificarci dall’idolatria di Mammona, che acceca, accogliendo l’invito di San Giacomo a far seguire la fede dalle opere, senza di che è morta in se stessa (2, 26). L’Apostolo intima ai ricchi di corrispondere la giusta mercede agli operai: “Ecco che il salario da voi trattenuto dei lavoratori che hanno mietuto i vostri campi, grida, e le urla dei mietitori sono giunte all’orecchio del Signore degli eserciti” (5, 4).

La povertà volontaria come scelta di vita in spirito di libertà ci fa di subito eredi del Regno, quella subita non induce di per sé alla virtù, quanto a una umiliazione che mortifica. Carlo Maria Martini commenta in merito alle beatitudini: È importante leggerle in senso forte e un po’ esclusivo: felici quelli, e solamente quelli, che sono poveri, miti, puri di cuore. Sono gli unici felici, solo di essi è il regno dei cieli, solo loro troveranno misericordia. Vedi anche la perentorietà della parabola del giovane ricco.

Oggi poi, con l’aumento dei migranti e le trasmigrazioni, il mondo del lavoro conosce un continuo spostamento di campo: gli ultimi (la classe operaia) si sono fatti penultimi con un peggioramento delle frustrazioni e l’induzione alla guerra tra poveri nell’estrema prossimità delle posizioni. La forbice tra ricchezza e povertà si è allargata, la composizione sociale è più dispersiva, inesauribile la frammentazione; i sindacati rappresentano per lo più i pensionati o chi opera nel pubblico impiego. Si ha l’impressione che la complessità ceda sempre più alla complicazione. Come individuare il processo di risalita?

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