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Cultura

GRAMMATICA, PANE E CIOCCOLATA

ROMOLO VITELLI - 01/12/2011

 

Ero stato contattato dai dirigenti delle circoscrizioni consolari di Friburgo e Stoccarda, nel 1982, in Germania, per definire un corso d’aggiornamento per i professori che insegnavano nei corsi serali ai figli degli immigrati italiani. Come era mia abitudine solevo inviare, prima del corso, un questionario per farmi un’idea sullo stato dell’utenza; e al fine di definire meglio il progetto educativo ero solito recarmi anche sul posto direttamente in alcune scuole, durante le ore d’insegnamento e così avevo fatto anche in quell’occasione.

La visione d’insieme che avevo ricavato non era delle più rosee: accanto ad insegnanti aggiornati, ve ne erano molti altri che operavano con pratiche didattiche assolutamente non adeguate per l’attività educativa all’estero. L’insegnamento delle lingua e cultura italiana che si teneva nelle ore serali, dopo che gli allievi avevano già trascorso ben otto ore nelle scuole tedesche, era affidato per lo più alla sola parola dell’insegnante e alla lavagna: né la televisione, quale strumento didattico, né gli altri sussidi audiovisivi per interessare, coinvolgere gli studenti venivano utilizzati in classe.

Alla luce dei dati conoscitivi raccolti, preparai un progetto educativo volto a scuotere dal profondo le certezze assolute e quelle convinzioni pedagogiche, chiamiamole così, che a me sembravano profondamente errate e/o in definitiva non funzionali alla crescita di soggetti d’apprendimento che vivevano all’estero. Nella terza giornata di corso, mentre stavo esaurendo la pars destruens del mio progetto, uno di quei professori che mi aveva invitato tutto orgoglioso e pieno di sé ad assistere nella sua scuola ad una lezione di lingua italiana, si alzò di scatto e con il volto paonazzo mi interruppe dicendo: “Professore, lei mi ha messo in crisi, prima che arrivasse con le sue teorie, entrando in classe sapevo che cosa fare e che cosa dire, ora sono nella confusione più totale!”

(Beh, bisogna comprenderlo! Con le mie lezioni avevo demolito il suo credo educativo. Avevo assistito impassibile sino alla conclusione alla sua lezione serale. Ad una classe di studenti, sveglia dalle 6 di mattina per essere a scuola alle 8, che parlava benissimo tedesco, il dialetto del sud Italia di origine dei genitori e molto male l’italiano, aveva rifilato, tra la noia generale, tutto compiaciuto, quasi due ore di lezione tra lettura, commento di un brano dei Promessi Sposi, tra l’altro non dei più belli, con relativa analisi del periodo). E alla fine, un po’ prima che terminasse la lezione, rivolto a me disse: “I ragazzi qui non sanno l’italiano e non lo parlano correttamente perché nessuno insegna loro i classici e la grammatica!” Non dissi nulla, né criticai la sua lezione, ma mi riservai di farlo in maniera impersonale, durante la pars destruens del corso, affrontando correttamente, insieme ad altre questioni, i nodi teorici sottesi a quella che avevo verificato essere in quella serata una non corretta progettazione educativa e didattica.

“Caro professore -esordii- lei è in ritardo di un giorno, aspettavo il suo intervento ieri ma è importante che sia intervenuto oggi e che abbia espresso le sue perplessità. Cosa crede che sia venuto a fare io in Germania, una vacanza? Un corso d’aggiornamento, non è solo un “mener au jour, tout court,” un semplice aggiornare la materia nelle sue implicazioni teorico-pratiche, cioè un versare nuovi contenuti in contenitori vecchi, senza prima – come suggerisce Plutarco – raschiarli ben bene dell’incrostazioni che da troppo tempo si sono depositate a causa dalla routine. Un corso d’aggiornamento deve servire a cambiare ed io sono venuto a cambiarvi e possibilmente in meglio. Lei dice di essere in crisi. E’ normale che questo accada. Nella lingua cinese la parola crisi è composta di due ideogrammi: uno per indicare pericolo, un altro opportunità. Però lei si concentra solo sul suo smarrimento, sulla fase di pericolo, sulla sua preoccupazione di perdere in un certo qual modo le sue discutibili certezze che, bene o male, l’hanno guidato ed orientato sinora nella pratica educativa quotidiana e non vede le opportunità educative che le si possono aprire, mettendosi in discussione. Che cosa sta morendo nel suo caso in lei? Un vecchio modo di essere insegnante, con convinzioni teoriche e procedure didattiche tutte da verificare, ma che a mio avviso le impediscono di assolvere adeguatamente alla sua funzione educativa. Quali convinzioni teoriche? Quelle che la portano ad assegnare ad esempio alla grammatica una funzione impropria, secondo cui facendo grammatica a scuola si amplia la capacità comunicativa degli studenti. Dice Tullio De Mauro: insegnare la grammatica è utile, ma bisogna chiarire a chi e per che cosa. Una cosa è certa dice il linguista: la grammatica non dà la lingua, ma è una riflessione sulla lingua, cioè serve a dirci come funziona una lingua, ma non contribuisce a potenziarne la competenza comunicativa. Per ampliare il linguaggio ed assicurare agli allievi il possesso accurato e corretto del mezzo espressivo occorre una buona competenza comunicativa, che è – come dice il linguista statunitense Noam Chomskj – la capacità di per potere dire ciò che si ha da dire per iscritto o a voce e per poter capire ciò che gli altri dicono a voce o per iscritto. Questa competenza la si ottiene facendo manipolare la lingua in situazioni concrete, partendo dal vissuto e dalle esperienze dei ragazzi ed ampliando i loro orizzonti culturali e comunicativi con i classici della letteratura. Infine a proposito di grammatica non bisogna dimenticare ciò che diceva Quintiliano: la grammatica è necessaria ai ragazzi, ma è piacevole ai vecchi”.

Un buon educatore non deve dimenticare, e ce lo ha ricordato più volte Piaget, che certi processi logico-deduttivi fondamentali, specie nell’acquisizione di regole grammaticali, si sviluppano verso i 13, 14 anni alla fine delle medie. Ed è quello su cui insistono vari specialisti quando dicono che alcuni tipi di intelligenza sono precoci, per esempio, quella musicale (si pensi a Mozart, a Mendelssohn); quella invece matematico – logica affiora più tardi. Perciò bisogna tenerne conto, diversificando l’approccio didattico. Attenzione ai metodi non su quello che apprendi ma su come lo apprendi. Lo stesso vale per la grammatica: non un complesso di nozioni da studiare in astratto, ma la ricostruzione razionale di qualche cosa che si è gia appreso. Quindi poche nozioni tecniche, per gli adolescenti, ma molta pratica, molto allenamento.

Quindi piuttosto che concentrarsi sull’analisi del periodo, mentre si leggono i Promossi Sposi ( un libro non proprio vicino all’universo mentale di un giovane che parla meglio il tedesco e il dialetto di origine che la lingua italiana) sarebbe di tanto in tanto utile e produttivo leggere qualche libro sempre di autore classico, se si vuole, ma più vicino per problematiche ai giovani d’oggi e/o proiettare in classe, a ragazzi già stanchi da una lunga giornata di studio, film per esempio come Pane e cioccolata. Un film che vedremo oggi, dopo la mia relazione e la discussione e che affronta la spinosa questione dell’immigrazione clandestina degli italiani e non solo degli italiani in Svizzera e mostra il dramma di chi è a “mezza parete,” cioè non è ancora svizzero ma non si sente più a suo agio in mezzo agli italiani. Dopo l’analisi del film, prenderemo alcune parti del dialogo, le più salienti del filmato e vi faremo una riflessione morfo – sintattica del tipo: “Che cosa sarebbe successo se il protagonista Nino Manfredi invece di…”

Con questo tipo di discorsi ipotetici contro – fattuali, i ragazzi imparerebbero meglio l’uso del condizionale. Ho cercato, con questa mia riflessione, di mettere a fuoco alcune tematiche sulle teorie più aggiornate sull’insegnamento della lingua italiana ed in particolare il ruolo che la grammatica può avere in questo processo d’insegnamento. Non ho fatto niente altro con le mie lezioni, in queste giornate, che comportarmi come Socrate con i suoi concittadini. “Socrate” – secondo Hegel – “creava uno stato d’incertezza e di confusione nell’interlocutore, perché si accorgesse che quello che egli riteneva vero ed incontrovertibile non era vero. La riflessione deve incominciare con il confondere le idee e mettere in crisi l’interlocutore portarlo a dubitare di tutto per indurlo a prendere maggior cura della conoscenza e a conseguire la verità come prodotto del concetto”. “Se vuoi rinascere a nuova vita”- diceva Nietzsche – “devi morire a te stesso,” ma per far morire il vecchio che è in noi è necessario entrare in crisi e lo smarrimento è la prima fase di questo processo di aggiornamento e di rinascita di una nuova e più adeguata ed avvertita fase di competenza educativa.

 Si sedette e non disse più nulla, ma continuò a seguire il corso con assiduità e profitto. Mi ha scritto per lungo tempo, sempre biglietti affettuosi, ma ora è un po’ che non lo sento…

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