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Storia

LA GRANDE GUERRA, CENT’ANNI FA

VINCENZO CIARAFFA - 06/02/2014

Alla partenza per il fronte (dall’album fotografico di un combattente)

Indro Montanelli sosteneva che il plagio di sé stessi non è proibito dalla legge e, pertanto, forte di cotanto avallo e per aderire all’invito del direttore di RMFonline a esprimere un punto di vista sulla Grande Guerra di cui quest’anno ricorre il centenario dell’inizio, sono andato a pescare nel mio libro “L’Armata Emotiva”. Di una disastrosa guerra mondiale che, complessivamente, durò oltre cinquantatre mesi e che il papa Benedetto XV definì «inutile strage», non si poteva, però, parlare in poche righe senza banalizzare un evento che cambiò la storia del mondo, sicché racconteremo la vicenda in quattro puntate.

Qualcuno ha scritto che ricordare l’inizio di una guerra può essere utile per capire la sua assurdità oltre a che non v’è situazione difficile dalla quale gli uomini di buona volontà non siano capaci di uscire. Sarà così anche questa volta, mentre pare che voglia dissolversi l’intero Paese sotto l’azione di forze prerivoluzionarie che non sanno come cambiare le regole del gioco democratico e di una classe di potere conservatrice che, invece, si ostina a non volerle cambiare? Non lo sappiamo, non ci crediamo ma ci speriamo di vero cuore e, soprattutto, speriamo che il lettore, dopo averci letto, si faccia una sua autonoma opinione in proposito, anche perché quella che oggi definiamo «pubblica opinione» nacque con la società di massa che, a sua volta, nacque nelle trincee della Grande Guerra.

Quando il 28 giugno del 1914 lo studente serbo Gavrilo Princip assassinò a Sarajevo l’erede al trono austriaco e la consorte di certo non poteva immaginare che il suo gesto avrebbe provocato una guerra mondiale, la scomparsa di quattro imperi e sedici milioni di vittime tra militari e civili. Nella circostanza l’Italia non si schierò subito anche perché, fin dal 1882, era legata agli austro-tedeschi dalla Triplice Alleanza ma, dopo avere a lungo tergiversato, il 26 aprile del 1915, firmò il Patto di Londra – con il quale s’impegnava ad entrare in guerra contro l’Austria entro un mese – all’insaputa di tutti, perfino all’insaputa dei diretti interessati, cioè i militari. Le Regie Forze Armate, infatti, appresero di doversi mobilitare appena diciannove giorni prima della dichiarazione di guerra, dove per la mobilitazione generale delle forze occorrevano quaranta giorni. Fu come se il nostro Presidente della Repubblica avesse dichiarato una guerra all’insaputa del Parlamento e del Ministro della Difesa: per molto meno un Parlamento geloso delle proprie prerogative costituzionali avrebbe fatto la secessione dell’Aventino dieci anni prima!

Può sembrare assurdo, ma nel 1915 le cose andarono proprio così. La cesura tra il potere politico e quello militare, poi, non fu dovuta alla contingenza eccezionale, il che sarebbe già stato grave, ma addirittura a una legge. Il Regio Decreto n. 86 del 4.3.1906 stabiliva, infatti, che «il capo di stato maggiore dell’esercito deve essere tenuto a giorno della situazione politico-militare, per quanto possano esserne interessati gli studi e le predisposizioni per la guerra». Per non dare adito a dubbi, lo stesso decreto chiariva che «…il capo di stato maggiore dell’esercito esplica la sua azione in accordo con il Ministro della guerra», non alle sue dipendenze!

Per terminare in bellezza, rimaneva l’irrisolta questione della conduzione della guerra. Secondo lo Statuto, il comando dell’Esercito era prerogativa del re il quale – sempre secondo lo Statuto – era irresponsabile degli atti del governo, al quale spettava la nomina del capo supremo delle Forze Armate. In parole povere il re – capo supremo delle forze armate, in quanto tale, violava la Costituzione monarchica ma i Generali italiani, lungi dal preoccuparsene, ne andavano fieri perché amavano ritenersi alle dirette dipendenze del sovrano, cioè del violatore dello Statuto. Era, dunque, scritto nelle stelle che il Capo di Stato Maggiore, il Generale Luigi Cadorna, fino a Caporetto avrebbe condotto le operazioni militari come il capo di un potere autonomo o, al massimo, parallelo a quello del governo. Come pure era scritto che – stante le risorse dilapidate in Libia – la Grande Guerra ci trovasse logisticamente impreparati ma, come il solito, avrebbero rimediato, in corso d’opera, i nostri soldati con le loro inesauribili risorse emotive.

A complicare il quadro generale contribuì che, non potendo conoscere fino all’ultimo momento la scelta di campo del governo, lo Stato Maggiore italiano non era riuscito a elaborare un coerente piano di guerra. Come, ad esempio, la pianificazione di quelle preliminari azioni offensive miranti all’occupazione di posizioni strategiche quali Innsbruck e Lubiana, approfittando del fatto che in quel momento l’Austria era impegnata ad alimentare il fronte orientale. Al nostro Esercito mancavano riserve sufficienti e addestrate di ufficiali effettivi e anche di complemento, e questo mentre le tradotte iniziavano a portare verso il fronte soldati che, in due anni di ferma di leva, avevano sparato sì e no 365 cartucce a testa. In quel momento l’Intendenza Generale poteva vestire e armare soltanto 750.000 soldati e, se a tutto questo aggiungiamo che del milione e 300.000 uomini che si stimava occorressero inizialmente ve ne erano alle armi soltanto 400.000, si capisce bene sotto quali auspici iniziasse per l’Esercito italiano la Grande Guerra.

Per farsi un’idea di com’eravamo messi in fatto di dotazioni, basti pensare che i nostri soldati si accingessero ad affrontare un nemico che non aveva mai fatto mistero di possedere gas asfissianti senza avere, inizialmente, in dotazione maschere antigas e neppure gli elmetti che sarebbero stati distribuiti solo nel 1916, quando ce li presteranno la Francia. Nel frattempo, il comandante del II° Corpo d’Armata si preoccupò di rinforzare, con del cartone, il berretto che portavano in testa i propri fanti: flosci gli sembravano poco marziali. Comunque, ciò che non mancò ai nostri soldati fu il viatico del solito Giolitti, che li riteneva «I figli di famiglia più stupidi, dei quali non si sa cosa fare», e la scarsissima considerazione del loro comandante supremo, Vittorio Emanuele III. Infatti, il «re soldato», al convegno di Peschiera con i capi di governo e i comandanti alleati della Triplice Intesa, non esiterà a scaricare la colpa della sconfitta di Caporetto sugli ufficiali di complemento – i suoi ufficiali! – ovvero quegli imberbi studenti universitari frettolosamente rivestiti col grado di Sottotenente e che, durante gli assalti, si facevano massacrare dagli austriaci inneggiando alla sua casata.

Tra le fila degli ufficiali di complemento italiani, peraltro, si registrerà il più alto numero di caduti tra tutti gli eserciti impegnati nella I° Guerra Mondiale. Eppure, nonostante si battessero in nome di un così meschino sovrano, i figli di famiglia stupidi e inutili avrebbero fronteggiato e vinto due eserciti coriacei e meglio armati di loro. Ma, ancora una volta, l’esaltazione emotiva impedì all’opinione pubblica, alla classe politica e agli stessi militari di ponderare, con lucidità, i rischi di una guerra moderna.

Fu a causa di quella mancata ponderazione che tutte le parti in causa non riusciranno a capire che la belle epòque stava per concludersi in modo tragico. «La guerra è scoppiata; eppure…», scriveva il Gazzettino di Venezia del 24 maggio 1915 «…attraversando le nostre campagne non lo si direbbe. Le campagne magnifiche, ubertose, come di rado si vedono, appaiono ridenti sotto il solleone: qua e là qualche bue ara: tutto è pace e serenità». La prosa carducciana dell’articolista evidenzia, a tutto tondo, l’impreparazione, anche psicologica, dell’intera nazione, la quale era convinta che il suo Esercito, in un battibaleno, avrebbe piantato il Tricolore a Trieste e Trento, e se ne sarebbe ritornato a casa.

Purtroppo, l’idea che la guerra appena iniziata avrebbe concluso il ciclo risorgimentale, influenzò i vertici militari fino al punto che essi la condurranno come l’ultima guerra del Risorgimento, invece che come la prima del XX° secolo, il secolo che avrebbe visto la scienza e la tecnologia porsi massicciamente al servizio della morte. Le campagne venete, in realtà, erano ancora tranquille e ubertose soltanto perché il nemico ci aspettava arroccato in alto, dove dalle alture del Trentino dominava la pianura veneta, mentre da quelle dell’Isonzo controllava la piana del Friuli, lungo una fronte di 600 km che andava dalla Svizzera al mare Adriatico.

1 – continua

 

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