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Storia

WOJTYLA/ 4 IL GRANDE MODERNIZZATORE

SERGIO REDAELLI - 31/10/2014

La stanza del Pontefice a Santa Marta (PHOTO/OSSERVATORE ROMANO)

La stanza del Pontefice a Santa Marta (PHOTO/OSSERVATORE ROMANO)

Si dice che la Chiesa non faccia santi, si è già santi da vivi e, di sicuro, Giovanni Paolo II ha bruciato le tappe del processo di canonizzazione (la dichiarazione ufficiale di santità). Il suo successore Benedetto XVI accolse l’invito a farlo “santo subito” che giungeva dalla folla stipata al funerale – l’8 aprile 2005 – e l’anno dopo avviò la procedura derogando alla regola dei cinque anni dal trapasso. Karol Wojtyla fu il papa dei record. Vescovo a trentotto anni, cardinale a quarantasette, papa a cinquantotto. Un pontificato lunghissimo, il terzo di sempre, ventisette anni. Centoquattro viaggi internazionali compiuti, più di un milione di chilometri percorsi. Fu il primo pontefice slavo della storia, il primo non italiano dai tempi dell’olandese Adriano VI (1522-1523) e l’unico a salire al Sacro Monte di Varese nella lunga storia del papato.

“Non so se potrei bene spiegarmi nella vostra… nostra lingua italiana, se mi sbaglio mi corigerete”, disse appena eletto la sera del 16 ottobre 1978 affacciandosi al balcone di San Pietro ma poi fu lui a “correggere” numerose tradizioni della Chiesa. A Wojtyla è legata, per esempio, una delle “modernizzazioni” più vistose della storia dei conclavi, la scelta del luogo di residenza dei cardinali durante gli scrutini. Nel 1996 decise che gli elettori fossero degnamente ospitati nella Casa di Santa Marta, un moderno albergo dotato di ogni comfort e non più in anguste cellette di legno, senza acqua corrente, senza bagni e senza aria condizionata, ricavati negli spazi adiacenti la Cappella affrescata da Michelangelo. Come avveniva da secoli.

Prima, i porporati alloggiavano in ricoveri punitivi dove tutti, anche i più anziani e i malati, la mattina erano costretti a fare lunghe code davanti ai pochi bagni allestiti nelle adiacenze della sala del Giudizio Universale; obbligati a mangiare in solitudine nelle proprie cellette e a sopportare d’estate un clima torrido come accadde nel conclave che elesse Albino Luciani, Giovanni Paolo I, il 26 agosto 1978. Le cronache riferiscono che i principi della Chiesa soffrirono terribilmente il caldo. L’augusto “trasloco” fu un passo rivoluzionario rispetto alla tradizione antica e misteriosa del conclave e come sappiamo, nella Casa di Santa Marta ha scelto di abitare stabilmente papa Francesco che utilizza gli appartamenti pontifici solo per recitare l’Angelus della domenica e ricevere le autorità.

La Domus Sanctae Marthae è un imponente albergo di cinque piani con centosei suite, ventidue comode camere singole con bagni e servizi, sale da pranzo, salotti, arredi, la vasta cappella con volta ad angolo acuto in cemento armato e le statue all’ingresso che ricordano celebri personaggi religiosi. I cardinali sono sistemati al primo e al secondo piano nelle stanze assegnate a sorteggio, con assistenza tecnica riservata, servizi di pulizie, sicurezza e angoli-studio. La Casa sorge nell’omonima piazza dietro l’aula Paolo VI, lungo le mura che delimitano il confine tra lo Stato del Vaticano e l’Italia. La Domus è citata nella costituzione apostolica Universi Domini Gregis del 1996, il documento con cui Wojtyla disciplinò l’elezione del suo successore.

Fu costruita al posto del vecchio Ospizio di Santa Marta voluto dal papa Leone XIII nel 1891 per ospitare i poveri e gli ammalati del rione, ma non tutto filò liscio. Alla fine dei lavori di costruzione, nella seconda metà degli anni Novanta, il complesso finì nel mirino degli ambientalisti perché impediva la vista della cupola di San Pietro a chi guarda da via Gregorio VII. Nei periodi normali, quando non c’è il conclave, la Casa ospita ecclesiastici di curia e di passaggio. Su indicazione di Wojtyla, è gestita dalla Fondazione dalle suore Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli che provvedono anche al vitto dei cardinali con l’aiuto di un “rinforzo” di consorelle, come accadde in occasione del conclave che elesse Joseph Ratzinger nel 2005.

Giovanni Paolo II ha risolto indirettamente anche un altro “vecchio” problema, quello del menù del conclave. La cucina di Santa Marta prepara cibi leggeri e ricchi di proteine a base di riso, minestroni, arrosti, verdure bollite e pietanze che tengono conto dei gusti e dei Paesi di provenienza dei cardinali. Certo, non sono le golose ricette dei ristoranti di Borgo Pio, intorno a San Pietro, che i porporati frequentano al loro arrivo a Roma, durante la sede vacante e le congregazioni. Ma c’è pur sempre un abisso rispetto al passato. Papa Pio IV, lo zio di Carlo Borromeo fautore del Concilio di Trento nel 1563, dispose con la bolla In Eligendis che i cardinali si contentassero a pranzo di una sola portata (“cardinales uno solo ferculo sint contenti, et esse debeant”).

Il problema si trascinava da secoli. Già duecento anni prima, nel 1351, Clemente VI aveva stabilito con la bolla Licet in Constitutione che “passati i tre giorni dopo l’ingresso dei cardinali in conclave, se non sarà fatta l’elezione del nuovo pontefice, i prelati e gli altri deputati alla guardia dovranno impedire che, nei seguenti giorni, s’imbandisca la tavola dei cardinali con più d’un solo piatto, sia al desinare come alla cena. Decorsi i cinque giorni, d’allora in poi permetteranno loro altro che pane ed acqua, sino a tanto che termineranno di fare l’elezione”. Il conclave, insomma, non era (e non è) un soggiorno dorato in cui i cardinali mangiano, bevono e si perdono in oziose discussioni e sono tenuti, viceversa, a scegliere in fretta il nuovo successore di Pietro.

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