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Cara Varese

DOVE TI PORTA IL CUORE

PIERFAUSTO VEDANI - 16/01/2015

Si chiama Bianca Maria, ha sei anni, è mia pronipote, è la cucciola non solo della sua famiglia, ma di un vasto parentado dove l’elemento femminile per tradizione ha un ruolo importante, sino dagli anni in cui nella società civile le donne spesso non riuscivano a dare il contributo che avrebbero voluto.

Bianca Maria fatica un pochino a distaccarsi dai vizietti che è riuscita a scroccare ai genitori, per esempio quello delle abluzioni richieste dalla natura umana. È accaduto che la bimba per l’ennesima volta abbia chiesto aiuto per un indispensabile intervento igienico e la mamma non si sia lasciata sfuggire l’occasione per un richiamo doveroso: ”Bianca, ti devi rendere conto che dobbiamo mettere fine a certe operazioni, sei diventata grande!”. La risposta, immediata, ha carbonizzato mia nipote: ”Il sederino io me lo farò asciugare da mio marito”.

Il tam tam telefonico seguito alla dichiarazione – programma di Bianca Maria è arrivato anche a Varese, dove è stato aggiunto un anello alla catena di risate. Come prozio più che ottantenne non avrò mai la possibilità di una verifica sul campo, ma sono certo che il cambio della guardia, oggi già abbozzato nella galassia del rapporto tra i due sessi, non arriverà mai al risultato auspicato nell’anno 2015 da una bimba milanese.

Non tutto avviene comunque casualmente: Bianca Maria cresce in un ambiente dove si ritrova zie di notevole livello professionale e una prozia oggi tra le donne più potenti d’Italia: da loro ha imparato e imparerà il preciso significato dei doveri che discendono dalle responsabilità, l’importanza dell’autonomia, la forza dell’amore per la famiglia, la generosità verso i meno fortunati.

Bianca Maria non fa capricci, alle 9 di sera è già a letto, a scuola si impegna. È una bimba che dialoga con i genitori, che va d’accordo con i fratelli.

Dopo la telefonata relativa al programma igienico, inevitabile la riflessione sulla condizione dei bimbi nel mondo e in Italia, dove non si insegna loro a uccidere i prigionieri o a diventare kamikaze, ma facciamo di peggio perché arriviamo a ucciderli, a violarli, a negare loro il sacrosanto diritto all’amore, all’assistenza, a un futuro dignitoso. Coinvolti in una spirale cercata e voluta dal mondo impazzito, la società nella sua frenetica evoluzione ci impedisce spesso di dare un’anima vera a chi verrà dopo di noi nel cammino della vita.

A lungo i missionari comboniani sono stati veramente di casa nella mia famiglia, papà fu padrino per l’ordinazione sacerdotale di uno di loro, ancora oggi noi si guarda con attenzione all’Africa, ai miracoli di civiltà fatti dai nostri missionari, ma sempre più mi convinco che anche il nostro Paese sia sempre più terra di missione. E mi rendo conto che al recupero dei valori spesso non partecipo perché all’occhio critico con il quale segnalo da cronista problemi e distonie che emergono nella vita della comunità, non faccio seguire un’azione che sia di vero stimolo, un’azione magari semplice come quella del manovale che porge il mattone a chi deve riparare il muro.

Ma guarda dove mi ha portato il mio passerotto di Milano, a una confessione, tra l’altro poco attendibile perché è tale la mia categoria. Pare comunque che per i giornalisti, per quelli veramente meritevoli di un recupero, la pena dell’ergastolo sia stata prevista anche per il purgatorio. Non sembra, ma è già un miglioramento.

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