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Cara Varese

DIDIMO E LE DUE SUOCERE

PIERFAUSTO VEDANI - 08/05/2020

bettoleDidimo un nome storico grazie ai vangeli, storico e di rara importanza, ma tanti secoli dopo lo diedero a un neonato che con gli anni si sarebbe dimostrato un fedelissimo e sapiente seguace di chi predicava un nuovo paradiso, quello dei poveri e degli ultimi del potere. Il Didimo che ho conosciuto era lo spazzino di Casina, primo grande abitato del medio appennino reggiano sulla statale che dopo il valico del Cerreto cala sulla Spezia.

Didimo era solito tenere la strada perfettamente in ordine nel centro del paese e così aveva modo di passare davanti al bar preferito dai villeggianti perché un vicino folto di piante garantiva ai clienti, seduti ai tavolini esterni del locale, una invidiabile frescura. Fu così che una mattina transitando davanti al bar, Didimo udì una valutazione su Marx fatta da un docente universitario di Parma. Didimo chiese cortesemente la parola e con un garbo infinto mise in difficoltà il docente che sicuramente era un “compagno” e di livello se insegnava a Parma. Credo che il vantaggio di Didimo sia stata la perfetta conoscenza della vita reale in URSS dove lui misteriosamente approdava a novembre per godersi anche la festa di Marx e dei suoi eredi. Consisteva essenzialmente in un’immensa parata militare, che celebrava il trionfo nel mondo del marxismo. Difficilissima anche per i comunisti italiani non lasciare traccia di passaporti e autorizzazioni varie, Didimo le otteneva e poi ci raccontava dei pro e anche di qualche contro della vita in Unione sovietica.

Nei paesi le contrapposizioni sono di dominio pubblico, ma non si diffuse mai quella tra Didimo e mia suocera Rina Camorani, presidente della sezione locale dell’Azione Cattolica, generosissima insegnante elementare che non faceva distinzioni ideologiche nello sfamare o vestire i bimbi di famiglie indigenti che non erano poche alla fine della seconda guerra mondiale.

Se Didimo la vedeva arrivare, rallentava la sua azione per poterla salutare con braccio levato e pugno chiuso, ma senza pronunciare parola.

Volto sorridente, un lieve inchino della testa come saluto che contrastava con una frase in puro dialetto romagnolo che nessuno di lingua reggiana pur avendola udita fu mai capace di tradurre. Certamente non era un complimento, nè altro che potesse essere ineducato o peggio scurrile. Mamma Rina aveva dei meravigliosi princìpi e li ha sempre rispettati. Fu più volte ospite nostra a Como e a Varese dove assieme a mia mamma la portai alle Bettole. Alla fine di ogni corsa si abbracciavano festeggiando la vittoria del cavallo sul quale avevano puntato. Dopo la cagnara che fecero grazie all’ennesima vittoria, uno spettatore che aveva cominciato a tenerle d’occhio se ne andò inferocito esclamando che per la serie di vittorie si poteva riferire alla sola parte del nostro corpo che usiamo per sederci. Era invece una piccola, ingenua gioia di vivere in allegria che le nonne creavano per se stesse ma soprattutto anche per scherzare. Infatti puntavano su tutti i cavalli in gara! E il divertimento post corsa costava poco.

Ho pensato a Didimo e alle due suocere della mia famiglia come a un piccolo mondo già lontanissimo e irripetibile quanto a serenità e a filosofia. La nostra società di quel tempo era ben più povera, non aveva i problemi che oggi ci terrorizzano perché in Italia abbiamo costruito una comunità di cicale, per di più bugiarde e incapaci. E ovviamente senza la impossibile fortuna che mandava in bestia lo schiavo del gioco alle Bettole.

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