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Attualità

L’ITALIA DEI RISCATTI

FRANCESCO SPATOLA - 30/01/2015

repubblicaHo smesso di leggere Repubblica a metà del 2007, dopo il rapimento da parte dei Talebani del suo inviato di guerra Daniele Mastrogiacomo, poi liberato dopo il rilascio di quattro prigionieri talebani da parte del governo afghano del recalcitrante Karzai. Con un’ossessiva campagna-stampa, il giornale alfiere della rettitudine e della schiena dritta costrinse il governo italiano a premere su quello afgano perché trattasse e cedesse ai terroristi tagliagole, che nel frattempo avevano sgozzato l’autista del giornalista. Era lo stesso giornale che vent’anni prima, in base alla “linea della fermezza”, aveva impedito la trattativa con i terroristi delle Brigate rosse per la liberazione di Aldo Moro, con un’altrettanto ossessiva campagna-stampa sulla dignità dello Stato e sull’impossibilità di trattare con chi aveva assassinato la scorta. Lo stesso giornale che aveva protestato sdegnosamente nel 1981 quando fu rapito il politico filocamorrista Ciro Cirillo e lo Stato ne ottenne la liberazione pagando alle BR un cospicuo riscatto, ora spingeva contro l’onore italiano e metteva a rischio la stabilità del traballante governo afgano pro-Occidente pur di riportare a casa un proprio uomo in mano ai terroristi.

Insomma, Mastrogiacomo valeva più di Aldo Moro, statista e padre della patria, dopo il cui assassinio sono cambiati i destini politici italiani: dalla possibile svolta progressista del “compromesso storico” si è passati all’imbroglio oligarchico-corporativo del CAF (Craxi Andreotti Forlani), con la deriva del debito pubblico che ci massacra oggi e la degenerazione del costume politico, che produsse Mani Pulite e ferì irrimediabilmente il rapporto istituzioni-cittadini.

Ma Mastrogiacomo non era un inviato di guerra? Il rischio di morte non rientrava nelle logiche possibilità del mestiere liberamente scelto? Se era stato incauto o semplicemente sfortunato non dovevano essere lui e Repubblica, e non il governo Karzai con lo Stato italiano, a pagarne le conseguenze? L’indignazione ribollente non mi consentì di continuare a essere lettore di un organo di stampa così altezzosamente fermo quando toccava agli altri e invece no quando toccava a lui.

La stessa indignazione l’avevo provata due anni prima, nell’aprile 2005, quando venne rapita in Iraq da terroristi jihadisti un’altra inviata di guerra, Giuliana Sgrena del Manifesto, e il governo italiano fu costretto da analoga campagna-stampa a pagare circa cinque milioni di euro per il riscatto, perdendo anche un validissimo funzionario dei servizi segreti, Nicola Calipari, colpito da fuoco amico a un posto di blocco americano sulla precaria via per l’aeroporto di Baghdad. Ma come, in Italia vigeva dal 1991 il divieto di riscatto e il sequestro preventivo dei beni delle famiglie che subivano un rapimento, proprio per impedirne il pagamento ed evitare recrudescenza e proliferazione dei rapimenti, e lo Stato stesso era costretto ancora a contraddirsi – lo aveva già fatto l’anno prima con le cooperanti Simona Pari e Simona Torretta – pagando un riscatto coi soldi dei contribuenti, finendo per finanziare il potenziamento armato della stessa guerriglia terroristica, che combatteva nella coalizione a guida Usa con un proprio contingente militare? E il rischio della vita non era insito nei reportage di guerra, non rientrava nella consapevolezza professionale dei giornalisti e dei giornali che sceglievano liberamente di affrontare il pericolo? Chi si stupisce se un soldato muore in guerra, pur nel dolore irrimediabile di vite umane perdute? Il compito dei giornalisti in zone di guerra non è quello di combattere in armi come i soldati, ma il rischio di morire è pur sempre un’inevitabile incognita professionale. E se nessuno pagherebbe un riscatto per un soldato prigioniero, non vale lo stesso per un giornalista, specie in Italia con la legge sul sequestro dei beni dei rapiti?

Ero perfino tentato di condividere le critiche dei giornali di destra, che – come già avvenuto ai tempi della Sgrena – anche per Mastrogiacomo infierivano sulla mancanza di dignità del governo italiano, contestato aspramente dai cobelligeranti in Afghanistan: Usa, Gran Bretagna, Germania e perfino la piccola Olanda. Salvo ricredermi pochi anni dopo, quando nel 2012 gli stessi giornali di destra suonarono la grancassa per il caso dei due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, militari addestrati per l’anti-pirateria a bordo del mercantile italiano Enrica Lexie, che confusero il peschereccio indiano St. Antony con un’imbarcazione-pirata e spararono uccidendo, per sbaglio, due marinai indiani dell’equipaggio di pescatori.

Secondo quei giornali, ora l’onore italiano sarebbe corrisposto a infrangere la parola data e trattenere in Italia i due marò, in occasione della licenza natalizia negoziata dalla diplomazia italiana con il governo indiano, e i due militari in missione sono automaticamente acclamati come eroi quando, come minimo, dovrebbero essere considerati “compatrioti che sbagliano”. Ma la loro professionalità e competenza non doveva essere quella di eliminare i pirati e non i pescatori? Non devono pagare le conseguenze degli errori commessi, quand’anche in buona fede? Non rientra nel rischio del mestiere? E in Italia non deve valere mai il principio di responsabilità, se non per gli altri?

Da sinistra, sia stampa che social network, le contro-critiche infatti non sono mancate, ma immediatamente si sono tradotto nel vizio opposto di demagogia a buon mercato: i due marò sono stati accusati di assassinio gratuito, come se si trattasse di killer prezzolati anziché di militari in missione. E nessuno ha voluto riconoscere che all’errore dei marò è corrisposto peggior errore del Ministero degli Esteri quando, interpellato dalla compagnia armatrice dell’Enrica Lexie, consigliò alla nave italiana – giuridicamente, territorio dello Stato italiano a tutti gli effetti – di accedere all’ingiunzione della guardia costiera indiana di attraccare nel porto di Krochi, stato indiano del Kerala.

La successiva controversia sul reato commesso in acque non territoriali ma internazionali, da giudicarsi dalle autorità italiane e non da quelle indiane, ne è risultata irrimediabilmente compromessa, e dall’addebito di incompetenza non può essere esentata la stessa diplomazia italiana, impastoiatasi con le proprie mani in un pasticcio quasi inestricabile, ormai paradossalmente equiparabile a un caso di “rapimento” (consenziente) di connazionali da parte di forze straniere, con tanto di rischio di morte sullo sfondo per l’eventuale applicazione della pena capitale. Un caso certo non risolvibile con improbabili azioni di forza, come continua a chiedere la stessa roboante stampa di destra, con l’eco interessata di rampanti minoranze politiche, padane e non. Strano nazionalismo, che blatera di dignità nazionale e, scusa umanitaria congiunta, vuol perseverare nei giochetti da magliari – le vacanze natalizie, la convalescenza ecc. – che hanno reso famosa l’Italia nel mondo come paese di Pulcinella.

Altrettanto strano quando, di recente, la stessa area massmediatica di destra aggredisce l’immagine personale delle due volontarie italiane rapite in Siria, la varesotta Greta Ramelli e la bergamasca Vanessa Marzullo, liberate di recente con fondato sospetto di pagamento di riscatto. Verso di loro le critiche derisorie e denigratorie si sprecano, rievocando la definizione di “vispe terese” che Vittorio Feltri aveva coniato per le due Simone nel 2004. O paternalisticamente contestando il buonismo avventuroso di chi si spinge a fare la carità all’estero anziché in patria, dove pure ce n’è tanto bisogno. Sino a pruriginose illazioni sul torbido fascino arabo dei terroristi, con cui le due ragazze avrebbero intessuto rapporti intimi consenzienti. Aggressioni verbali oltre il limite dell’insulto, che hanno spinto lo scrittore Roberto Saviano a contestare un feroce “odio per il bene” che ispira critici tanto ottusi quanto ingenerosi, pronti a solleticare il qualunquismo popolare se l’impegno giovanile suona di fastidioso pungolo all’indifferenza.

Sbagliato e ipocrita contrapporre il volontariato in Italia a quello all’estero, ignorando che la spinta etica che motiva i volontari è la stessa generosità di chi vede il proprio bene nel bene degli altri, e solo le circostanze e le inclinazioni personali indirizzano verso l’uno o verso l’altro. Ingiusto trascurare che chi s’avventura nel volontariato fuori patria si assume rischi più alti, e quindi ha una motivazione ancora più forte, che deve essere apprezzata e non stigmatizzata. Superficiale e volgare misconoscere che Greta e Vanessa avessero precedenti impegni di volontariato internazionale in zone di grande bisogno ma non di guerra, come nei centri nutrizionali per malati di Aids a Chipata e Chikowa in Zambia con i missionari comboniani e a Calcutta presso Kalighat, la struttura d’accoglienza delle suore di Madre Teresa. Il valore delle due ragazze è fuori discussione, tanto più se confrontate con il gorgo di stupidità consumistica e aridità individualistica che affligge tanti loro connazionali, coetanei e no.

Tutt’altra cosa è la valutazione dello stile di comportamento cui s’è acconciato lo Stato italiano in queste situazioni di crisi, tralasciando bellamente gli effetti devastanti del pagamento di riscatti – si parla di 61 milioni di euro dal 2004 a oggi – in contesti territoriali dove la differenza tra terrorismo e criminalità per bande è così labile. La somma di 12 milioni di euro vantata dai rapitori è certamente inventata per vanagloria propagandistica, ma gli osservatori più accreditati considerano realistica una cifra tra i 3,5 e i 5 milioni di euro (importi che arrivano mediamente a pagare le assicurazioni internazionali per i rapimenti di tecnici e funzionari delle imprese operanti in zone di guerra). In ogni caso, corrispondono ad “aiuti” militari ai terroristi tra i 3500 e i 5000 kalashnikov, le armi dei fratelli Kouachi nel massacro di Parigi: certamente molto di più dell’elemosina che, ingloriosamente, il governo italiano ha elargito ai combattenti curdi che vanno a morire contro l’ISIS, per un valore di circa la metà del riscatto di Greta e Vanessa.

Tutti i casi di rapimento all’estero capitati all’Italia riguardavano persone di valore, dai giornalisti ai marò sino alle volontarie: ognuno operava secondo validissime motivazioni ideali e professionali, per la “professione” – in senso letterale: manifestazione vocazionale coerente d’identità attiva – che ciascuno s’era scelto, e anche il ruolo di volontario cooperante in tal senso lo è. Tutte le loro vite meritavano di essere salvate, facendo ogni sforzo; ma non a ogni costo.

Non si tratta di rinunciare a salvare vite umane, ma ogni sforzo va fatto entro limiti di valutazione seria delle coerenze e delle conseguenze. All’Italia occorre un colpo di reni morale per essere coerenti tra stile istituzionale interno – blocco dei beni per evitare i riscatti – e stile esterno, non per abdicare alla generosità degli aiuti ma per assumersi tutti le responsabilità dei comportamenti che si sceglie di attuare.

Chi va in zone di guerra, soldato giornalista o cooperante, deve sapere a quale rischio va incontro, morte compresa; e deve farlo da professionista e non da dilettante, preparandosi in proporzione al rischio, responsabilmente. E deve sapere che lo Stato italiano non tratta riscatti perché non vuole perpetuare i rapimenti. Mentre lo Stato deve curare in modo preventivo e organizzato la riduzione del rischio e l’affronto serio delle conseguenze, perché nessuno possa fare il dilettante allo sbaraglio. L’improvvisazione è arte italiana, ma esasperata dall’impreparazione diventa tragedia, non certo commedia dell’arte.

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