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Cultura

EUROPA, L’ANIMA BUONA

EDOARDO ZIN - 08/05/2015

europa“L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra”. Così Robert Schumann il 9 maggio 1950.

 La seconda guerra mondiale era terminata da appena cinque anni, la prima era cominciata nel 1914. Tra l’inizio della prima e la fine della seconda s’interpose un periodo che Raymond Aron definì “la guerra dei trent’anni del XX secolo”.

Durante questo spazio temporale s’intensificò in tutti gli stati europei una eccessiva adesione alla nazione che vedeva nello straniero il nemico da abbattere. Le frontiere divennero il segno più evidente di questa preclusione verso gli altri e venivano definite “sacre”. Nacquero allora i nazionalismi: il bolscevismo, il franchismo, il fascismo e il nazismo. La guerra, il sangue, le stragi, le durezze, la crudeltà non furono più oggetto di deprecazione, ma divennero mezzo necessario per raggiungere la “bellezza” della guerra.

Alla fine dell’atroce secondo conflitto mondiale, l’idea dell’unità dell’Europa uscì dalle nubi in cui era stata esiliata dalle dittature e sognata per secoli: l’unità culturale di Erasmo, in funzione ancillare rispetto alla cristianità, la specificità non più religiosa di Machiavelli, la “patria Europa” di Comenio, l’Europa affratellata da precisi comuni interessi di Saint – Simon, la confederazione di stati europei di Immanuel Kant, la “giovine Europa” di Mazzini, il sogno di Victor Hugo, che prevedeva non lontana la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, il federalismo europeo di Altiero Spinelli esposto nel manifesto di Ventotene divennero realtà con la dichiarazione di Robert Schumann del 9 maggio di sessantacinque anni fa.

A lui si unirono il tedesco Adenauer, il nostro De Gasperi e altri ferventi europeisti che avevano vissuto la tragedia dei totalitarismi. La meta dei padri fondatori era chiara: assicurare pace e prosperità all’Europa attraverso una comunità europea sovranazionale.

 Gradualmente – la prima comunità – la Ceca – che metteva assieme la produzione di ferro e di carbone, a quei tempi materie prime per le micidiali armi di guerra, si sarebbe trasformata in economica – la CEE – per arrivar gradualmente alla meta finale: l’unità politica dell’Europa. Per giungere a questo traguardo, gli stati-nazione avrebbero dovuto cedere all’organismo sovranazionale parte della loro sovranità, riconoscendo in tal modo il loro carattere non più assolutistico. “[L’Europa] sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.

L’inizio fu caratterizzato da un forte impegno costruttore. Grande era l’entusiasmo per costruire una comunità di popoli affratellati nella solidarietà, germe vitale per dare un senso alla loro unione. Ma la parola “solidarietà” col tempo venne sostituita da “mercato comune”, “mercato unico”.

A metà del 1993 la recessione sembrò compromettere le prospettive dell’economia. L’inflazione aumentò soprattutto a causa della diminuita produzione tedesca e per la reticenza del governo di Bonn a ridurre i tassi d’interesse. La parola “solidarietà” venne sostituita da “libero mercato”, “competitività”, “innovazione”. La solidarietà, più tardi, si inabissò ancor di più e allora si incominciò a parlare di “rigore” e di “disciplina” soprattutto da parte del governo tedesco che aveva pagato a duro prezzo il costo dell’unificazione.

Col tempo, la crisi economica mondiale si abbatté anche sull’Europa: la finanza assorbì l’economia e questa la politica. La crisi economica mise sotto accusa le politiche liberiste e venne a mancare il benessere economico. L’Europa opulenta del Nord abbandonò lo spirito di solidarietà che obbliga ciascun paese a soccorrere i paesi poveri in maniera adeguata, chiedendo a loro in contropartita un aumentato controllo delle politiche nazionali: la Germania non può essere accusata di essere la causa del debito greco, ma può essere accusata di non aver voluto cercare i mezzi per salvare la Grecia.

La politica economica di Bruxelles – diretta dai governi sovrani – strangolò l’economia dei paesi più deboli e sostituì alla solidarietà la disuguaglianza. Tutto ciò venne aggravato dal fenomeno migratorio e dal terrorismo islamico. L’economia e la finanza risvegliarono i nazionalismi caricandoli di rancore poiché determinarono una gerarchia tra i diversi paesi premiando i più efficienti e penalizzando gli altri. Aumentò allora lo scetticismo, subentrato da un atteggiamento eccessivamente critico che ai nostri giorni è sfociato in forme diverse di nazionalismo, venato talvolta di populismo e di xenofobia.

La sopranazionalità a cui pensava Schumann non era la negazione della nazione. Essa “costituirà il primo nucleo concreto di una federazione europea indispensabile al mantenimento della pace”. Si doveva salvaguardare l’identità degli stati membri, limitandone al contempo il potere in materie che fino ad ora sono troppo ininfluenti e secondarie. La sopranazionalità contribuì a riscoprire le identità locali, che erano scomparse durante le dittature che tutto omologarono. Grazie proprio allo spirito sovranazionale si rigenerarono le culture locali, ricche ognuna di peculiari tradizioni: i bretoni, i corsi, gli alsaziani, i fiamminghi e i valloni, i gallesi e gli scozzesi, i baschi e i catalani, arricchirono l’Europa con le loro diversità, realizzando così l’unità nella pluralità.

Ma certe diversità sono divenute angusti localismi e sono sfociate in folcloristiche manifestazioni le quali nulla hanno a che fare con la storia di un popolo. “L’Europa, comunità spirituale e culturale” di cui parla Robert Schumann, si è tramutata col tempo in mero territorio geografico e il suo disegno si è affievolito. Venuta meno la solidarietà, venuto meno il disegno spirituale dell’Europa, venne a mancare la partecipazione democratica dei cittadini stanchi di vedere davanti a loro un futuro offuscato da scelte compiute da scialbi politici, da semestri di presidenza basati sulla retorica e su promesse non mantenute, da logore liturgie fatte di abbracci, di sorrisi, di rituali foto di gruppo dietro cui si nasconde la diffidenza, se non l’ipocrita avversione, da una burocrazia che anziché rianimare lo spirito, lo soffoca con rigide norme che s’interpretano a seconda dei casi.

Sono oltraggiati i cittadini quando la dinamica sovranazionale è asfissiata dall’approccio intergovernativo. Sono offesi i cittadini quando sono considerati solo consumatori di ricette economiche e non attori del processo d’integrazione. Si sentono traditi i cittadini dalla mancanza di maggiore audacia, di saldi ideali, dalla durevole lungimiranza per far ritornare la speranza in un’Europa unita politicamente.

A questa rassegnazione gli europei devono reagire con nuove idee e ampie visioni. Tutti sentiamo il bisogno di un risveglio soprattutto delle energie latenti tra i giovani. Tutti vogliamo riappropriarci dei destini dell’Europa.

Esprimeva bene tutto ciò Papa Francesco che nella sua visita al Parlamento Europeo chiedeva di dare speranza all’Europa riconoscendo la centralità della persona e di investire in educazione, in aiuto alle famiglie, nell’affrontare assieme la questione migratoria, nello sforzo per custodire il creato, in una parola, nel “riscoprire l’anima buona dell’Europa”.

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