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Società

LE VIE DEL WELFARE

LIVIO GHIRINGHELLI - 14/07/2016

welfareIn ragione dei forti tassi di disoccupazione, del progressivo invecchiamento della popolazione, del declino di cultura della coesione sociale, del processo incalzante della globalizzazione con le sue dinamiche perverse, con il prevalere delle strategie speculative, è indubbio dover constatare una grave crisi e decadimento nella politica tradizionale del welfare, che ha caratterizzato il recente passato. Comunque in sede storica già dall’inizio dell’età moderna il problema di un sostegno dello Stato alle classi meno abbienti e diseredate, di lotta alla povertà, si pose con particolare urgenza.

Tommaso Moro, cancelliere d’Inghilterra, nella sua Utopia (1516) invocava che si fornissero a ognuno, secondo l’ideale di una società più giusta, i mezzi di sussistenza perché nessuno sentisse la necessità di diventare prima un ladro e poi un cadavere. Di lì a poco l’umanista spagnolo Juan Luis Vives (De subventione pauperum, 1526) contemplava la distribuzione di un minimo di sussistenza per chi si trovasse in particolari difficoltà economiche. Calvino si diede cura di introdurre politiche distributive per migliorare a Ginevra la vita dei Working poor. Con Elisabetta si individuò necessaria l’istituzione di un sistema di protezione sociale. Tutte misure adottate per scongiurare le tensioni sociali e le conseguenti ribellioni e per fare rifulgere in termini concreti il concetto di carità.

Thomas Paine nel Settecento (La giustizia agraria, 1797) propose un fondo nazionale con il compito di corrispondere a tutte le persone che avessero compiuto i 21 anni quindici sterline a compensazione di quanto perso dell’eredità naturale per il sistema sopraggiunto della proprietà fondiaria e nel 1795 venne istituito lo Speenhamland System, indicizzato sul costo della farina, per scongiurare i tumulti popolari, rimasto in vigore fino al 1834 quando sulla scorta del pensiero di Malthus, Bentham e Ricardo si stabilì che l’assistenza ai poveri dovesse riguardare solo chi accettasse di lavorare nelle famigerate work–houses. Fourier e Considerant nell’Ottocento ponevano il diritto dei poveri a un lavoro o a una somma di denaro per sopravvivere nella constatazione di una perdita del diritto naturale universale di cacciare, pescare e raccogliere i frutti.

Bertrand Russell (Socialismo, anarchismo, sindacalismo – 1918) ha affermato il diritto di ognuno a una quantità di reddito sufficiente a soddisfare i bisogni basilari, a prescindere dall’occupazione. Gli economisti di Cambridge e Oxford dalla fine degli anni venti hanno fatto proposta di un dividendo sociale e l’introduzione di un sussidio sociale è stata patrocinata anche dal liberista Milton Friedman.

Tutti interventi con lo scopo di ristabilire una maggiore equità, una maggiore libertà nella ricerca di un lavoro, incentivi all’investimento in capitale umano, una coesione sociale più marcata in tempi di individualismo estremo. C’è chi invece nei provvedimenti adottati o da adottare (bonus, reddito di cittadinanza ecc.) coglie un disincentivo nella ricerca di un’occupazione, chi si preoccupa delle disuguaglianze nella concessione ai beneficiari. Preoccupante soprattutto è la ricerca delle fonti di finanziamento visto lo stato dei pubblici bilanci.

Per concludere i modelli che si affacciano sono di tre tipi: quello di stampo keynesiano, ai fini della piena occupazione, quello della riduzione delle disuguaglianze in chiave egualitaria rispetto alla disparità nelle condizioni di partenza, quello del diritto naturale al godimento dei beni comuni.

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