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Società

FUOCO INFORMATICO

GIANFRANCO FABI - 30/03/2018

facebookNei primi giorni è sembrato uno scandalo planetario. Poi sulla vicenda è sembrato scendere un pallido silenzio che sarà magari presto interrotto da nuove rivelazioni. La scoperta che Facebook, la più importante piattaforma di comunicazione via Internet, aveva ceduto milioni di dati personali dei propri iscritti ha comunque provocato le scuse ufficiali del fondatore Mark Zuckerberg, ha dato uno scossone in Borsa al valore del titoli della società, ha suscitato allarmate reazioni da parte delle autorità europee garanti della privacy.

Per riassumere i fatti Facebook avrebbe venduto alla società Cambridge Analytica cinquanta milioni di profili riservati e questi sarebbero serviti per una propaganda finalizzata ad orientare gli elettori nel referendum sulla Brexit in Gran Bretagna e sull’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.

In realtà l’allarme sulla violazione della privacy può essere considerato pari alla scoperta dell’acqua calda. Era ormai da tempo noto, conosciuto e dimostrato che il valore di società come Facebook deriva solo in piccola parte dalla pubblicità tradizionale, quella che fa capolino tra una notizia e l’altra. Il vero valore è sempre stato e rimane quello dei dati raccolti ed elaborati automaticamente, dati che servono ormai da tempo a sviluppare nuove politiche di marketing, come quella che viene chiamata “pubblicità comportamentale”. Quella pubblicità che fa seguito all’interazione con i siti internet: se cercate una camera d’albergo o un nuovo modello di televisore vi può capitare di ricevere nei giorni successivi ulteriori offerte per quella stessa località o per altri tipi di televisioni.

Ogni giorno un abitante su sei di questo pianeta si collega a Facebook e comunica tranquillamente i propri dati e le proprie caratteristiche. Ebbene in un breve arco di tempo, attraverso i dati che condividiamo e le ricerche o le preferenze che comunichiamo, Facebook raccoglie settanta diversi tipi di informazione su ciascuno di noi, informazioni continuamente aggiornate che riguardano lo stile di vita, le scelte alimentari, le amicizie, i valori politici e le sensibilità sociali.

Lo scopo ufficiale per cui questi dati vengono richiesti e concessi è quello di offrire come priorità ad ogni persona le notizie che più le possono interessare. Lo scopo secondario, che tuttavia per l’azienda è il più remunerativo, è quello di realizzare o far realizzare politiche di marketing digitale, sia sul fronte dei prodotti, sia, abbiamo scoperto, per guidare la formazione del consenso politico.

Lo scandalo Facebook ha tuttavia la stessa portata del ragazzo che nella favola di Andersen grida “il re è nudo”. Tutti sanno che sacrificano la riservatezza sulla propria identità pur di poter partecipare al grande gioco delle relazioni virtuali. Salvo scandalizzarsi quando i dati sono utilizzati per finalità commerciali o politiche.

Non per nulla i social network possono essere definiti le nuove armi di manipolazione culturale di massa. Senza accorgersene l’uomo digitale vede così sempre più sfumare i confini tra relazioni, informazione, persuasione e manipolazione.

È allora a questo punto provvidenziale che questo scandalo sia esploso. Perché deve diventare chiaro a tutti che questi nuovi strumenti del comunicare non sono solo potenti piattaforme prive di responsabilità, ma possono essere il comodo e appagante veicolo dove possono transitare ed acquisire credibilità anche le più grandi fantasie, le fake news, quelle informazioni false che vengono ritenute vere solo grazie al fatto che sono ripetute e rilanciate. E in questo mondo, dove scompaiono i vecchi parametri della credibilità, sono allora di sempre più gli interessi economici e politici ad avere il sopravvento. Anche in barba alle più rigide regole di protezione dei dati personali.

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