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Qui Haiti

COSTRUIRE UN MODELLO

JANUSZ GAWRONSKI - 04/05/2018

haitiVerso il bacino del Trou con una scala gialla di sette metri, che amo molto per la sua leggerezza solidità utilità, quando ci sorprende la pioggia: inflessibile, inappellabile, più che bagnata. Dopo venti secondi tutto è fango, rigagnoli. Non c’è riparo. Avanziamo. Gli occhiali deformano la visuale. Capelli spettinati fradici si incollano al collo, confermano quanto la Gonave ha fatto di me: un progressivo primitivo. Di bagnarci a me e Herby poco cambia, perché nel Trou ci sarebbe toccato immergerci nel lago sotterraneo, fino al petto.

Dentro il Trou fa un caldo esagerato. Illumino col cellulare. Scivolo. Alzo un braccio. Il cellulare resta a galla, appena. Prendiamo nota dei raccordi da acquistare. Qualche dollaro appena, per eliminare una strozzatura, far passare un 40% di acqua in più.

Le pompe del Trou Divinor, il sistema intero, sono per me grande orgoglio, merito della caparbietà di molti, a iniziare da Alessandra Pedrollo e Pierluigi Magistrali. Sì è fatta una fatica indicibile a costruire il sistema. A lungo ha funzionato precariamente. Fra i cedimenti, conto due drive defunti dopo essere stati inavvertitamente schizzati di cemento fresco, altri due drive bruciati da scariche elettrostatiche, diversi raccordi metallici perforati dalla salsedine, pompe intasate da plastica gettata nel Trou, alcune perdite dell’acquedotto, e alcuni sabotaggi, come l’intercettazione del circuito a bassa tensione del troppo pieno, per rubare un po’ di elettricità, che non c’era. Ogni volta che per questo o quel motivo l’abbeveratoio era vuoto abbiamo tremato: che migliaia di animali fossero costretti a tornare all’assedio, nella piazza del villaggio, che decine di ragazzini, inviati dagli adulti con le bestie, perché con l’abbeveratoio non c’era più bisogno di adulti, dovessero tornare a casa, a chilometri dal l’abbeveratoio, le bestie isteriche, a rischio sopravvivenza, perché non abbeverate.

Adesso se Dio vuole, quattordici mesi dopo gli inizi, l’intero sistema ha raggiunto una certa maturità. Potrà succedere altro. Ai pannelli, ad esempio. Però le componenti più fragili sono state tutte testate, hanno ceduto, sono state riparate. Sappiamo come funziona ogni parte. Sappiamo che può succedere. Se si ferma l’acqua, troviamo il problema praticamente a colpo sicuro. Sappiamo cosa fare, adesso. Lo sanno meglio di tutti Mardi Johnny Herby, haitiani. Il sistema è in mano ad haitiani. Questo è empowerment, uno degli obiettivi della nostra presenza qui.

Quando fai un’infrastruttura, questa inizia a dare servizio alla comunità, la comunità la vede affidabile, passando il tempo inizia a farci affidamento. Allora le persone, considerando presidiata una certa area, ad esempio l’abbeverata, si sentono nelle condizioni di intraprendere altro, per stare meglio. Similmente per la clinica. L’hanno fortemente voluta. Adesso che c’è, la utilizzano poco. Ci metteranno tempo: a fidarsi, ad andare da Jimmy.

È un processo virtuoso, paragonabile a quello dei pionieri dell’Oklahoma, della Palestina. Con la differenza che qui non c’è una popolazione locale soccombente. Non ci sono gli indiani da massacrare, i palestinesi da scacciare. Il nostro processo si è avviato con grande fatica, insieme con la comunità locale, per svilupparsi nel tempo, come un moltiplicatore: faccio uno, innesco tre. Faccio tre, innesco dieci. La comunità, la diaspora, iniziano a capire il potenziale, si coinvolgono. Da questo momento non parlo più al singolare: non “faccio”, ma “facciamo”, facciamo venti, produciamo cento. Si passerà al “loro”. Loro faranno sempre più, GasMuHa meno. Il processo proseguirà a lungo. Fra cent’anni, se Dio vuole, generazioni immemori siederanno su una base di ricchezza sociale che avrà distribuito opportunità, benessere, sarà citata come modello.

Chiaramente non si può iniziare calando una soluzione da un elicottero, consegnando le chiavi, salutando e ringraziando (non senza aver scattato belle foto di bambini nudi, felici davanti alla Soluzione). Bisogna stare. Soffrire con loro. Metterci la faccia, quando le cose vanno storte. Esserci, a lungo termine. Imparare con loro. Correggere. Servire. Lavare i piedi alle persone, come suggerisce AC, come atto che non ci sminuisce, anzi ci fa essere finalmente noi stessi.

Janusz Gawronski, dall’isola della Gonave, Haiti www.gasmuha.org

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