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Politica

DRAMMATICA E GROTTESCA

EDOARDO ZIN - 07/06/2018

??????????????Il governo giallo-verde guidato da Giuseppe Conte ha giurato davanti al Capo dello Stato di rispettare la Costituzione. Per giungere a questo momento ci sono voluti 89 giorni dalle elezioni, il Presidente si è sobbarcato tre giri di consultazioni, oltre ad altri incontri informali durante 57 giorni. È stata una crisi drammatica e grottesca. Ad un certo momento, c’erano tre presidenti del Consiglio: Gentiloni in carica per gli affari correnti, quello incaricato Cottarelli e quello nuovamente ritornato in campo, richiamato dai 5 Stelle e dalla Lega.

Dopo il primo giro di consultazioni, il Presidente affidò l’incarico a Giuseppe Conte, il quale, all’uscita dal colloquio con il Capo dello Stato dichiarò che era “consapevole della necessità di confermare la collocazione internazionale ed europea dell’Italia. Il governo dovrà cimentarsi da subito con i negoziati in corso sul tema del bilancio europeo, della riforma del diritto d’asilo e del completamento dell’unione bancaria”. Gli europeisti esultarono e si ritennero appagati per questa assicurazione.

Questa fase della crisi sembrava chiusa con la presentazione della lista dei ministri al Capo dello Stato presentata dal premier incaricato Conte. Si era giunti a questo momento dopo estenuanti balletti tra i due partiti preposti a formare il governo sottoscrivendo un contratto di governo e redigendo la lista dei ministri da sottoporre all’approvazione di Mattarella. E Conte salì al Colle. Il colloquio tra Mattarella e il presidente incaricato si protrasse a lungo e, al termine, Conte dichiarò alla stampa di aver rinunciato all’incarico: lo scoglio su cui il battello del nuovo governo si era arenato era rappresentato dal nominativo del ministro dell’economia. Lo spiegò all’opinione pubblica, con grande trasparenza, subito dopo la rinuncia di Conte.

La nomina del ministro dell’economia, proposto dalla Lega, rappresentava un’evidente contraddizione con quanto dichiarato da Conte al momento del conferimento dell’incarico. Il ministro suggerito dai due partiti aveva più volte teorizzato nei suoi scritti l’uscita dell’Italia dall’euro (“L’euro ha dimezzato il potere d’acquisto degli italiani” – “Dietro l’euro c’è una concezione sovietica. La conseguenza è un fascismo senza dittatura e, in economia, un nazismo senza militarismo” – “Il cappio europeo si va stringendo attorno al collo degli italiani” – “Quelli che oggi si dicono europeisti, in realtà, sono anti-italiani.”). Non solo, ma queste parodistiche amenità – si venne a sapere – erano scritte – nero su bianco – sul contratto di governo al punto 2°:” Gestione della decisione: segretezza o divulgazione?”. Tali norme prevedono l’uscita dell’Italia dall’euro, che è una possibilità legittima, ma non esposta durante la campagna elettorale e che comunque rappresenta una forzatura su un tema dirompente per la nostra economia, come dimostrarono i mercati.

Il clima, già cupo per il protrarsi della crisi, si fece ancora più bigio. Tuoni minacciosi e rombi rabbiosi si abbatterono sul cielo della politica. Di Maio giunse al punto di minacciare la raccolta di firme tra i parlamentari per mettere in stato di accusa per alto tradimento il Presidente della Repubblica, fino al giorno prima elogiato per la sua imparzialità e la sua rettitudine morale, e ora accusato di aver oltrepassato i suoi doveri costituzionali. I costituzionalisti si divisero tra i difensori dell’operato di Mattarella che “non ha operato sotto dettatura” non solo sul piano formale, ma anche per difendere il risparmio degli italiani, bene costituzionalmente protetto, e tra chi, al contrario, vedeva nell’agire presidenziale una trasgressione ai suoi poteri (“Il Presidente della Repubblica non ha un potere di decisione definitiva sull’indirizzo politico”)

Il Presidente della Repubblica, che finora era stato paziente, accorto, mediatore tra esigenze spesso contrapposte, non perde tempo. Convoca al Quirinale l’economista Cottarelli al quale affida il compito di formare un nuovo governo tecnico e di presentarsi alle Camere. Cottarelli accetta l’incarico che definisce “temporale” e si mette al lavoro per comporre una lista di ministri tecnici. Dopo di lui, ci sarebbe stata una sola possibilità: il ritorno alle urne.

Ma nello squarcio di chiarezza politica, si propagano i mugugni tra gli elettori dei 5 Stelle e della Lega e il vento comincia a soffiare contro i dirigenti dei due partiti, colpevoli di non aver portato a termine la loro missione taumaturgica di dare un cambiamento al Paese solo a causa della testarda ostinazione con cui hanno difeso la presenza di un ministro, con il risultato di non aver formato il governo.

Il presidente incaricato Cottarelli sale il Colle con la lista dei ministri e, mentre il colloquio con Sergio Mattarella si protrae, una telefonata, improvvisa come un lampo, da parte del capo 5 Stelle giunge al Presidente: il pentastellato dichiara la sua disponibilità ad accettare lo spostamento ad un altro dicastero dello sgradito ministro pur di riaprire nuove consultazioni. Il Presidente, probabilmente, trattiene un giusto sfogo personale nella consapevolezza che esso non risolverebbe, ma peggiorerebbe la situazione e, dimenticando gli insulti ricevuti pochi giorni prima dal suo interlocutore telefonico, prega il presidente incaricato di soprassedere e Cottarelli esce da una porta secondaria per sfuggire ai giornalisti.

Siamo in piena tempesta: la notizia si propaga come un rombo, fa rintronare le stanze dei partiti politici, rotola fino alle redazioni dei giornali e degli studi televisivi. S’intrecciano telefonate, l’ex presidente incaricato Conte si precipita a Roma, si riuniscono le direzioni dei partiti. A Mattarella non resta che concludere “un itinerario complesso” e rinnovare l’incarico a Conte, il quale accetta “senza riserva” come vorrebbe la formula di rito.

Il resto è cronaca recente: i ministri giurano fedeltà alla Costituzione, il presidente si presenta alle camere per il discorso programmatico e per chiedere la fiducia.

Alla fine di questa lunga storia – purtroppo veritiera, anche se non lo potrebbe sembrare! – ci siano permesse tre osservazioni.

La prima. Durante una campagna elettorale una battuta può strappare un applauso, ma chi va al governo ha il dovere di passare dal territorio dei luoghi comuni, delle promesse, delle banalità e delle comodità al luogo del “pensare bene”, cioè con intelligenza. Non si può governare con la stoltezza, che è una mucillagine che presto o tardi viene smascherata dalle incongruenze, dalle verità nascoste, dalla documentazione prodotta che è, come dice uno scrittore francese, la “regione delle idee”.

La seconda. La fedeltà dell’Italia all’Europa e all’Occidente è sancita da trattati sottoscritti che non possono essere aboliti per referendum, se non previa modifica della Costituzione. Il trattato di Maastricht, che tra l’altro ha istituito l’euro, non prevede una procedura per uscire dall’euro mantenendo l’adesione all’Unione Europea. Un eurodeputato dovrebbe sapere che per ritornare alla moneta nazionale, il Paese richiedente dovrebbe chiedere l’attivazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona per uscire definitivamente dall’UE. E non si confonda l’uscita del Regno Unito dall’UE con l’uscita dalla moneta unica!

La terza. Sarebbe bene che i sapientoni la smettessero di interpretare la Costituzione a loro uso e consumo. Per questo ci sono gli organi istituzionali. Piuttosto dovrebbero badare ai fatti di coloro che hanno calpestato la nostra Carta presentando al Presidente della Repubblica la lista dei ministri prima ancora di ricevere l’incarico o si sono proclamati “l’avvocato difensore degli italiani”, mentre il Presidente del Consiglio è solo la guida di un esecutivo, l’ispiratore di una politica, il modello a cui guardare. E sarebbe più prudente non pronunciare queste parole ”Siamo noi ora lo Stato!”: lo disse Luigi XIV e finì male!

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