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Società

IL DOLORE E LA CURA

GUIDO BONOLDI - 10/05/2019

Il dottor Guido Bonoldi

Il dottor Guido Bonoldi

Sono stato invitato a portare il mio contributo di medico a un convegno dal tema “il dolore e la cura” e ringrazio Carlo Zocchetti e gli altri promotori della iniziativa, in quanto dover raccontare di sé costituisce una opportunità per riflettere sulla propria esperienza.

Mi sono laureato in medicina e chirurgia all’Università Statale di Milano nel lontano 1980 e per i primi dodici anni della mia vita professionale ho prestato servizio all’estero, in Germania prima e poi in Paraguay; dal 1992 ad oggi ho lavorato in diversi ospedali della Lombardia, tra cui Varese, Milano-Niguarda e Busto Arsizio.

Devo confessarvi che la mia decisione di studiare medicina è stata determinata dalla insistenza di mio padre, dal fatto che alcuni compagni di liceo a cui ero legato avevano deciso di iscriversi a questa facoltà e dal consiglio di un sacerdote. Io di per sé avrei voluto iscrivermi a lettere e non sentivo nessun particolare desiderio di dedicarmi alla cura dei malati. Negli anni della università poi ero molto interessato all’aspetto scientifico delle materie di studio, tanto che ad un certo punto avevo deciso che avrei fatto l’anatomo patologo. Poi quando le vicende della vita mi hanno portato in Germania con una borsa di studio della Diocesi di Friburgo e dopo circa un anno di permanenza a lavorare in un ospedale cattolico della Foresta Nera, ho iniziato la mia carriera professionale di medico ospedaliero e ho scoperto in me una predisposizione alla cura dei malati che non immaginavo; aiutato in questo sicuramente anche dalla partecipazione alla vita della Chiesa, che mi rendeva possibile riconoscere il valore delle persone delle quali ero chiamato a prendermi cura e la profonda unità di esperienza tra me e loro.

Per un medico clinico, ma anche per tutti gli altri operatori sanitari, la possibilità di essere consapevole del fatto che le persone a cui ci si dedica sono preziose costituisce una grande risorsa, senza questa consapevolezza il dover prendersi cura di altre persone diventa una sorta di condanna ai lavori forzati.

Ma per non correre il rischio di essere troppo teorico vorrei raccontarvi di tre pazienti, tra i tanti dei quali mi sono occupato in questi quarant’anni; sono certo che tutti gli altri pazienti non se ne avranno a male e che quelli che mi hanno preceduto all’altro mondo spenderanno comunque una buona parola per me di fronte al Padre Eterno quando anch’io sarò chiamato a raggiungerli.

Il primo quadro: 1986, ospedale di Offenburg in Germania, reparto di terapia intensiva; era stato ricoverato un paziente di una settantina d’anni colpito da una emorragia cerebrale; il signor Joseph, che era originario della Germania Est, aveva avuto l’agognato permesso di lasciare la Germania Est e di trasferirsi nella Repubblica Federale dopo essere andato in pensione (infatti concedendo tale possibilità solo ai pensionati il governo della Germania Est otteneva due obiettivi: non perdeva forza lavoro e addossava alla Repubblica Federale il pagamento delle pensioni). Il 17 giugno era stato colpito da una emorragia cerebrale: si trattava del giorno nel quale il regime comunista della Germania Est festeggiava la propria festa nazionale, ricordando a modo suo quel giorno del 1953 nel quale era stata soffocata nel sangue dalle truppe sovietiche una rivolta popolare. Quel giorno Joseph si era tanto addolorato ed arrabbiato per quella ricorrenza, da avere un picco ipertensivo che a sua volta aveva determinato l’emorragia cerebrale. Io ero accanto al suo letto in terapia intensiva e lui mi racconta quanto vi ho appena esposto e poi, in modo inaspettato aggiunge: “vede caro dottore, io sono un cristiano evangelico, e come sa noi evangelici non vediamo con favore l’esposizione di simboli religiosi, eppure le devo confessare che quello che più mi ha aiutato in questi giorni difficili è stato Lui” e mi indica Gesù crocefisso appeso alla parete della stanza di fronte al suo letto di degenza. Io non capisco perché abbia voluto confidare proprio a me, medico straniero, quella sua esperienza intima, ma lo ringrazio in cuor mio per avermi richiamato a fare memoria di quella presenza che dà significato alla sua sofferenza ed anche al mio lavoro di medico. Come Giobbe, la cui esperienza di sofferenza è cambiata dall’incontro con Dio: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma adesso i miei occhi ti hanno veduto”.

Secondo quadro: 1991, Villarrica, Paraguay, Ospedale Espiritu Santo. Viene ricoverato un bambino di 6 anni di nome Egidio per una grave anemia, la diagnosi è infausta “aplasia midollare”. Per un po’ di tempo andiamo avanti a trasfusioni, io stesso dono ad Egidio il mio sangue. Poi decidiamo di tentare il tutto per tutto ed aiutati dall’indimenticabile Professor Paolo Mantegazza, allora Rettore dell’Università Statale di Milano, organizziamo un trasferimento dal Paraguay al Policlinico di Milano. Egidio viene in Italia con la mamma e con due sorelline, come potenziali donatrici di midollo. Ad una delle due sorelle viene diagnostica una neoplasia polmonare e viene operata con successo. Egidio viene sottoposto a trapianto di midollo presso la Clinica Ematologica Pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Quindi la permanenza di Egidio e della mamma in Italia si prolunga, aiutati dalla solidarietà di tanti amici italiani; Egidio viene assistito con amore, prima al Policlinico e poi al San Gerardo; riceve così tanti regali, che la sua preoccupazione più grande non è più la malattia, ma come farà a portare tutti quei regali in Paraguay. Egidio si sente un re. Ma ad un certo punto il decorso si complica ed Egidio muore per una infezione. Mi ricordo il suo funerale a Villarrica, la mamma grata per tutto l’amore che lei, Egidio, la sorellina operata avevano ricevuto. Egidio aveva concluso la sua breve vita da protagonista.

Terzo quadro: 1998, Ospedale di Cittiglio, vengo chiamato nella notte durante il mio turno di reperibilità internistica dal medico di guardia in Pronto Soccorso, che quella notte era un chirurgo, per una paziente di novant’anni che era arrivata in PS con un quadro di shock che non si riusciva a risolvere. Io vado in Ospedale contrariato per il fatto di venir chiamato da un chirurgo che non era in grado di trattare una banale ipotensione arteriosa per di più in una paziente di novant’anni. Ma una volta giunto in ospedale e superato il mio malumore mi metto all’opera. L’esame ecocardiografico evidenzia che si tratta di un tamponamento cardiaco da versamento pericardico: mi esprimo in una pericardiocentesi d’urgenza che risolve il quadro di shock e la paziente si riprende. Le successive indagini diagnostiche evidenziano che la causa del versamento pericardico è un timoma, che viene trattato con terapia steroidea con transitorio beneficio. La paziente viene dimessa in buone condizioni. Ma dopo alcuni mesi si ha la ripresa del tumore: la paziente viene nuovamente trasportata d’urgenza in PS e quel giorno di turno ci sono proprio io. Quando mi vede la signora Maria esclama: “Dottore, mi salva anche questa volta?”. Ma il quadro clinico è più complesso ci sono delle metastasi, non si riesce a risolvere con una semplice pericardiocentesi. La paziente viene ricoverata e poi muore. Ma quella domanda mi rimane stampata nella mente: “mi salva anche questa volta?”. Ciò che l’uomo desidera è la salvezza, a 6 anni, come Egidio, o a 90 anni, come la signora Maria. Ma chi è in grado di salvarci? Cosa centra con questo desiderio quella presenza che Joseph aveva riconosciuto guardando il crocefisso appeso alla parete della Terapia Intensiva? E poi Joseph, Egidio, Maria, così come la maggior parte dei pazienti di cui mi sono preso cura in questi quarant’anni sono morti; si tratta allora solo di un malinconico ricordo ?

Recentemente ho avuto la possibilità di ascoltare una lectio magistralis del nostro Arcivescovo alla Giornata sul fine vita promossa dalla FADOI, la società scientifica degli internisti, che si è tenuta a Milano il 6 aprile scorso. Monsignor Delpini ha significativamente scelto come titolo della sua lezione una domanda “la vita finisce?”. La traccia che ha proposto per rispondere alla domanda mi è apparsa, nella sua semplicità, del tutto convincente; cito:

“si può definire vita la relazione che costituisce l’essere umano, uomo e donna, come chiamato ad essere figlio di Dio, è l’amore di Dio che crea un essere vivente che è interlocutore di Dio, figlio di Dio, creato ad immagine di Dio. “io sono venuto perché abbiano la vita a la abbiano in abbondanza”. Questo modo di intendere la vita ne esprime anche la dignità ed il valore: la vita non vale per quello che uno può fare, dire, pensare, produrre, ecc..ma per l’amore che riceve, l’amore di Dio. Definire la vita come relazione con Dio e dono suo sottrae all’uomo il diritto di decidere l’inizio e la fine della vita. Si deve convenire che poiché l’amore di Dio non finisce, non si può dire che la vita finisce”.

Dobbiamo ammettere che guardare così la vita, guardare così il paziente, guardare così sé, dà all’esperienza umana una intensità ed una profondità, altrimenti impossibili. La relazione tra il medico ed il paziente è la relazione tra due persone che hanno in comune questa radice, questa origine del loro essere, l’amore di Dio. Anche il dolore è abbracciato dall’amore di Dio e la cura è partecipazione a questo amore.

La più grande ricompensa che un medico può ricevere è proprio quella di lasciare una traccia indelebile in una vita che non finisce.

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