Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Storia

GALANTUOMO

SERGIO REDAELLI - 14/02/2020

Vittorio Emanuele fotografato da André-Adolphe-Eugène Disdéri nel 1861

Vittorio Emanuele fotografato da André-Adolphe-Eugène Disdéri nel 1861

Il 14 marzo 2020 cadrà il bicentenario della nascita di Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878) e Torino si prepara a rendere omaggio a uno dei padri dell’Italia unita con Garibaldi, Mazzini e Cavour. Sono in programma una serie di iniziative, aperte la sera del 13 marzo da un gran ballo risorgimentale nell’aula del primo Parlamento italiano nel Palazzo dei principi di Carignano, dove il sovrano venne alla luce. Tra convegni dell’unione monarchica, conferenze per le scuole, presentazioni di libri e visite ai musei del Risorgimento, il re sarà simpaticamente ricordato con un nuovo cioccolatino, Vittorio 1820, creato dalle abili mani degli artigiani torinesi del cioccolato.

Vittorio Emanuele II è il volto migliore della dinastia sabauda negli ultimi due secoli, detto il “re galantuomo” per aver mantenuto in vigore lo Statuto voluto dal padre Carlo Alberto che concedeva la libertà di stampa e l’uguaglianza formale dei cittadini di fronte alla legge, garantiva la rappresentatività attraverso due Camere e la ripartizione dei poteri giudiziario, esecutivo e legislativo. Lo Statuto Albertino, promulgato nel 1848 nel Regno di Sardegna ed esteso nel 1861 al neonato Regno d’Italia, rappresentava il passaggio della monarchia assoluta alla monarchia costituzionale e restò in vigore fino al 1949, sostituito dalla Costituzione italiana.

Discusso dagli storici, da taluni di essi considerato addirittura un “figlio spurio” di Carlo Alberto, messo al posto del vero Vittorio Emanuele che sarebbe morto nel 1822, il futuro re era agli antipodi del padre intellettuale, delicato e sensibile. Lui spavaldo, sicuro di sé. Con modi poco raffinati e decisamente spicci per il cerimoniale di corte. Imparentato con gli Asburgo di Vienna attraverso la moglie Maria Adelaide, riuscì a districarsi nei giochi delle alleanze con l’aiuto di Cavour fino a dichiarare guerra all’Austria che occupava il Lombardo-Veneto. Una personalità ricca e apparentemente contraddittoria, ostile alle idee liberali, insofferente dei poteri del Parlamento. Ma innamorato dell’idea d’Italia. E rispettato presso tutte le corti europee.

Era un cattolico praticante vicino ai clericali, ma ebbe in vent’anni tre scomuniche da parte di Pio IX per aver approvato nel 1850 le Leggi Siccardi che prevedevano l’abolizione delle immunità e la soppressione dei tribunali ecclesiastici, per aver sciolto nel 1855 le corporazioni legate alla Chiesa incamerando i beni nel demanio e per la presa di Roma nel 1870. Diffidente nei confronti di Cavour, ma pronto ad avvallarne le iniziative in politica estera per conquistare l’alleanza della Francia. Perfino favorevole al colpo di mano di Garibaldi in Sicilia che il 26 ottobre 1860 a Teano rassegnerà nelle sue mani i poteri dittatoriali.

Vittorio Emanuele II (primo re d’Italia, ma secondo per la dinastia) fu un “prode soldato, coraggioso, generoso, onesto, energico e forte”, per usare le ammirate parole della regina Vittoria d’Inghilterra. In ventinove anni di Regno (dal 1849 a 1878) affrontò cinque guerre e in quattro combatté di persona, fino alla vittoriosa e decisiva battaglia di Solferino e S. Martino al fianco dei francesi contro l’oppressore austriaco. Un monarca simpatico, vitale, sanguigno e, da buon italiano, sfrenato ammiratore delle donne, anche se oggi questo atteggiamento passerebbe per maschilista. Lo dimostra la romantica storia d’amore che visse con Rosa Vercellana, per il gossip dell’epoca la Bella Rosin.

L’aveva conosciuta nel 1847 nel castello di Racconigi quando era principe ereditario del Regno di Piemonte. Rosa era nata nel 1833 a Nizza Marittima e aveva vissuto a Moncalvo d’Asti. Lui aveva ventisette anni, lei quattordici ed era figlia del tamburo maggiore dell’esercito. Fra i due scoccò subito una calda passione, premiata dalla nascita di due figli, Maria Vittoria nel 1848 ed Emanuele Alberto nel 1851. Nel 1859, la nominò contessa di Mirafiori e di Fontanafredda e, rimasto vedovo della moglie austriaca, dopo ventidue anni di relazione la portò all’altare con rito religioso nel 1869 a S. Rossore e con rito civile il 7 ottobre 1877 a Roma.

Così la bella Rosin coronò il proprio sogno d’amore e divenne la moglie morganatica (senza diritti dinastici) del re d’Italia nonostante l’opposizione della corte, di quasi tutti i ministri e soprattutto di Cavour che la osteggiava in tutti i modi. Il conte arrivò a insinuare che Rosa, mentre frequentava Vittorio Emanuele, fosse l’amante di un gioielliere di Torino. Lei si difese con maliziosa abilità, replicando che le avances del re erano così frequenti e impetuose che non avrebbe avuto la forza di fare altro. Fisicamente Vittorio Emanuele non era un adone. Massiccio, con gli occhi azzurri sporgenti e i lunghi baffi che si univano ai favoriti, non si dava arie aristocratiche.

Era stato educato in modo spartano e le uniche passioni che si concedeva erano la caccia e le numerose amanti, da cui ebbe parecchi figli illegittimi. Parlava quasi solo in dialetto e piaceva d’impulso alla gente. Anche Rosa non era il massimo del fascino femminile, nel senso che il suo tipo di bellezza faceva discutere. Secondo Henry d’Ideville, un pettegolo diplomatico francese che viveva alla corte dei Savoia, era “ordinaria, senza grazia e vestiva con cattivo gusto”. Un giudizio forse troppo severo. Secondo la sua rivale, l’attrice Laura Bon che aveva una relazione con Vittorio Emanuele ai tempi del loro incontro, era invece “bellissima, di forme assai sviluppate, con sguardi che rapivano, capelli neri, carnagione fresca, il volto incantevole e l’andatura maestosa”.

In questo caso la descrizione era forse invece dettata dall’amor proprio ferito: sconfitta si, ma da una donna dal fascino straordinario. In ogni caso la bella Rosin, vincendo le resistenze di corte e le umiliazioni che l’aristocrazia le infliggeva in ogni occasione ufficiale, seppe dare a Vittorio Emanuele l’affetto sincero di cui aveva bisogno, gli creò intorno un’atmosfera semplice e familiare, gli donò comprensione e complicità. La contessa di Mirafiori era la dimostrazione vivente che non era impossibile abbattere le barriere sociali, così come sposare un sovrano. Questo la rendeva simpatica e popolare e, infatti, per lei i sudditi stravedevano.

La tradizione vuole che l’unione fra Vittorio Emanuele II e la contessa di Mirafiori fosse dettata non solo dalla passione amorosa e dalle affinità elettive, ma anche dal palato. Lei era una superba cuoca e lo sapeva prendere per la gola. Il re gustava i prelibati manicaretti innaffiandoli con il Barolo dei suoi poderi. A testimoniare l’intesa fra i due amanti resta la Tenuta di Fontanafredda a Serralunga d’Alba, nel cuore delle Langhe in Piemonte, l’antica residenza di caccia di famiglia che lui le regalò e che divenne il loro nido d’amore, l’alcova dove si scambiavano tenere effusioni. Il figlio Emanuele Alberto la trasformò in azienda vitivinicola e oggi è una Cantina di fama internazionale.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login