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Il punto blu

STESSO SANGUE

DINO AZZALIN - 15/07/2022

wolissoArriviamo all’ospedale di Wolisso, in Etiopia, che è quasi sera, dopo un viaggio splendido tra maggesi, eucalipti e grano che ornano la povertà etiope di una bellezza incommensurabile.

Da Addis Abeba infatti, passando dall’altopiano di Bekoji, dove si allenano i più grandi maratoneti di tutti i tempi, per uno speciale connubio tra ossigeno e globuli rossi a livello muscolare. Da li scendiamo verso la pianura, con una meravigliosa vista sulla immensa, sterminata, campagna africana fino ad arrivare in una zona molto povera dove il Cuamm (Medici con l’Africa) ha allestito un ospedale, specificamente per la salute materno infantile, ma dove anche tutte le specialità sono presenti, come la chirurgia, la pediatria, l’ortopedia e l’odontoiatria.

È stato inaugurato nel 2000, dedicato a San Luca, l’apostolo medico: Wolisso, che è anche scuola per infermieri e ostetriche, ogni anno presta cure a più di 100mila persone per il miglioramento delle condizioni di vita di un bacino di un milione di utenti.  Il nostro gruppo è formato prevalentemente da medici, ma ne fanno parte anche altre persone non dell’area sanitaria, come mio fratello, che ha una ferita fresca, fresca in fondo al cuore per la perdita in un tragico incidente del suo primogenito.

Il nostro è un viaggio-conoscenza per incontrare i volontari negli ospedali “dell’ultimo miglio”, quelli che sorgono in zone rurali, le più povere. Un viaggio iniziatico anche per vedere i progetti sanitari del Cuamm, e per confrontarci con un mondo di diversità e indigenza, tra gli emarginati e gli indifesi. Un viaggio splendido. Siamo ricevuti dal responsabile medico del Cuamm, che ci porta verso una saletta per le riunioni e qui con un altro collega africano per illustrare l’attività dell’Ospedale.  Non facciamo in tempo a mettere giù gli zaini che ci raggiunge una dottoressa minuta in camice bianco con lo stetoscopio al collo: è decisa, dice di essere la pediatra e si presenta, chiede a tutti chi ha il gruppo di sangue AB0, dice che è urgente, serve per salvare un bambino che è caduto da un albero e ha perso molto sangue.

Mio fratello ed io siamo proprio di quel gruppo, allora lei facendo il segno della croce, dice di seguirci. Entriamo in un edificio basso costruito con lunghe file di mattoni grigi: dentro ci sono i letti dove giacciono una ventina di bambini, qualcuno assistito dalle madri, quasi tutti soli, ci guardano smarriti e, per quanto dignitoso, il reparto ci appare in tutta la sua desolazione, perché a soffrire sono proprio i bambini già colpiti da una condizione di una straziante povertà.

Lei si ferma a un letto dove un bambino giace immobile, con gli occhi chiusi, e con una flebo al braccio, con un pallore strano per essere di carnagione scura, la collega fa un cenno di assenso e dice «è questo il bambino… crediamo abbia spappolato la milza e lo dobbiamo operare subito anche per le fratture. Venite non c’è tempo da perdere». Così fa cenno di seguirla in uno stanzino e chiama una infermiera, noi le seguiamo e in un baleno ci fanno due bei salassi di sangue. Ci sembra tutto così surreale, appena arrivati così senza quasi neanche sapere dove siamo: «Questa per noi è la normalità di tutti i giorni» dice la pediatra.

Mio fratello è visibilmente scosso, è così difficile consolarlo, così terribile quel lutto: sopravvivere alla morte di un figlio credo sia la cosa più insopportabile del mondo. E così torniamo verso i nostri compagni di viaggio, che ci battono pacche sulle spalle come fossimo degli eroi. Sorridiamo, niente somiglia a niente, ogni azione corrisponde a una reazione, e noi non abbiamo avuto il tempo per renderci conto di cosa era successo.

Poco più tardi a cena, il chirurgo che aveva appena finito di operare il bambino ci ha informati che il bambino era fuori pericolo anche grazie anche alla nostra donazione e alla “sanguisuga” della dottoressa della pediatria, che ride. A mio fratello gli si inumidiscono di nuovo gli occhi, so che l’ha fatto per lui. Cerco di ovviare la situazione con: «ma che giorno è?», «il 26 novembre», «ah – dico – il compleanno di mia moglie, non potevo farle un regalo migliore!».

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