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Società

CUCCIOLI D’UOMO

EDOARDO ZIN - 03/03/2023

figlio-padre«Non sono felice perché i miei genitori non mi hanno mai detto di no!» – rispose un ragazzino delle elementari alla domanda del vescovo in visita pastorale. Aveva la faccia stizzita. Il vescovo l’aveva notato nel gruppo: appartato, poco partecipativo, solitario e, presolo in disparte, gli aveva chiesto il motivo di quella tristezza. Il ragazzino non esitò a rivelargli la ragione del suo disagio.

Vorrei partire da questo franco episodio di vita per riflettere sulla relazione educativa tra genitori e figli, tra alunni e docenti.

Ogni educatore, ha il compito di “far crescere,” tramite la sua testimonianza di vita colui che è affidato alle sue cure. A lui deve proporre quei valori che il tempo d’oggi ci invita a vivere, ma che sono radicati nel ricordo (= custoditi nel cuore) e che non fuggono al futuro. Una società muore quando le si taglia orgogliosamente le sue radici o quando le si proiettano sogni e desideri, ridotti presto a un grigio timore di fallimento. Educare significa condurre l’uomo verso la sua manifestazione e l’educatore è situato nel punto in cui emerge l’umano, una creatura in cui si può racchiudere tutta la vergogna del nostro secolo, ma anche la felicità dei genitori.

Sembra che i poteri economici, tecnologici, culturali della nostra epoca stiano convincendoci che l’uomo non sia più creatura: solo un individuo che può dimenticare le sue fragilità, acquistando e consumando tutto ciò che la tecnologia gli offre, immergendosi in una cultura che esalta l’individualismo come stile del vivere, irrigidendosi in un conformismo ideologico o in un utilitarismo tecnocratico. Questa creatura è “fluida” come la società in cui vaga alla ricerca di un qualcosa da esibire nella sua esistenza, di desideri impossibili da attuare, di emozioni da vivere come fantasmi ricchi solo di trovare piacere in una notte insensata, ma non di essere mendicante di bisogni importanti e insopprimibili.

Tra il figlio e il genitore si instaura una relazione che non è tra pari, ma diventa un legame che col tempo deve sciogliersi, una relazione che si svolge tra l’autorevolezza dell’educatore e il bisogno d’aiuto che il figlio chiede a entrambi i genitori per risvegliare in lui la coscienza. La gioia dei genitori è di poter parlare un giorno da uomo a uomo con il proprio figlio. C’è una pericolosa tendenza tra molti genitori: credere di esternare il proprio amore verso i figli colmandoli di doni, che costituiscono un ingombro, mentre i figli hanno bisogno di sentirsi amati con una fiducia contagiosa e una tenerezza calorosa. La mia esperienza di insegnante mi dice che, sia eliminando la costrizione usata in modo sconsiderato o distorto che l’autorità, si suscita nell’allievo l’angoscia. L’autoritarismo, che vorrebbe avviare l’allievo verso la libertà, si ritorce necessariamente contro di essa e prepara infanzie inguaribili o adolescenze interminabili.

Anche la scuola ci rimanda spesso ad una società che vede in essa solo il mezzo con cui creare il bravo calcolatore che lo conformi ai rendimenti economici, mentre essa è chiamata a cooperare con la famiglia per accompagnare il giovane offrendogli la sua specificità, che è pure il suo privilegio: l’insegnamento e l’apprendimento. Questo ruolo è decisivo per la formazione integrale della persona, a condizione che l’agire educativo non si sbricioli in una lunga serie di insegnamenti parziali, ognuno dei quali rinvia ad un particolare sapere, perdendo così di vista la crescita completa dell’allievo che deve maturare coniugando intelligenza e affettività capaci di mettere in orbita l’incanto di quanto di buono, di bello, di giusto, di vero merita di essere conosciuto, scelto e praticato attraverso il sapere che gli viene impartito. È questa la migliore ricompensa che può ricevere un insegnante: vedere l’allievo divenire discepolo e il discepolo superare il maestro!

Un mio professore di pedagogia era solito dire: «Ricordatevi che la vita intera di un uomo dipende da due o tre “sì” o da due o tre “no” detti tra i dieci e i sedici anni!». È un’espressione che racchiude in sé tutto lo spirito dell’educazione: portare il “cucciolo d’uomo” (Baden Powel) ad essere uomo elargendogli non tanto doni né saperi, ma piuttosto amore e sapienza.

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