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Storia

IL LAGO MAGGIORE DI FALDELLA

SERGIO REDAELLI - 30/11/2012

Correva l’anno 1892, centoventi anni fa, quando il giornalista e scrittore piemontese Giovanni Faldella (1846-1928), narratore “scapigliato” del lago Maggiore, amico di Emilio Praga e di Arrigo Boito, pubblicò in volume le Verbanine con i Fratelli Treves Editori di Milano. L’autore finge di avere ritrovato le lettere d’amore che un viaggiatore di commercio, Apostolo Zero, ha scritto alla sua bella Rosina e con questa scusa racconta l’umanità e i luoghi verbanesi, evitando di passare per il classico “scrittore di viaggi”, una moda forse abusata ai suoi tempi. Lo fa con l’uso della lingua e il gusto per la battuta che ricordano il goloso intellettuale del Cinquecento Teofilo Folengo, precursore dei moderni “gastronauti” e scrittore di poemi maccheronici in versi e anticipano le “invenzioni e l’esplosiva ricchezza verbale” di Carlo Emilio Gadda.

Umorismo e sperimentalismo, osservazione caricaturale, linguaggio ironico e gustoso. Per Faldella “l’Isola Madre è una verde tacchina che cova nel lago” e la statua del Sancarlone “un campanile in forma di cardinale”, un “gigante mansueto che è lì che benedice ai pesci e ai battelli del lago, non che ai popoli, alle messi e ai vigneti delle due rive”. La sua Stresa non è più quella di Rosmini, di Manzoni, del Bonghi ma quella delle “fabbriche di confetti” e dei giovani che emigrano sulla strada del Sempione “con la ghigna da ombrellaio, l’ombrello sulla spalla e il fagotto sulla punta dell’ombrello”. Più che le bellezze paesaggistiche da guida turistica, gli interessano i segni della modernità laboriosa.

Racconta del trasferimento in barca dall’Isola Madre (“Un soggiorno da poeta sullo stampo di Lamartine”) verso l’Isola dei Pescatori e osserva: “Sono partito dalle isole del lusso, dell’artificio, della ricchezza ereditaria, del casato che abbonda di cardinali, di santi, di guerrieri, di legislatori, di gentiluomini, le isole della gente che da secoli è riuscita e mi avvicino all’isolotto magro, secco, greggio della gente che lavora per riuscire. Mi pare di avviarmi a casa mia”. Poi spiega: “Sono parecchie le famiglie di qui che dal niente si fecero strepitose fortune in Olanda e altrove. Per queste ragioni io ho voluto visitare con predilezione l’isolotto dei Pescatori anziché l’Isola Bella e l’Isola Madre”.

L’edizione anastatica delle Verbanine del 1892, illustrata dal vignettista genovese Giuseppe Ricci (1853-1901), è stata stampata nel 2003 dalla Nuova Tipografia San Gaudenzio di Novara nella collana promossa dall’Università degli studi del Piemonte Orientale. È accompagnata dallo studio effettuato per la prima volta sui manoscritti e da un’appendice sul linguaggio dell’autore che, nella sua vasta produzione, si abbandona a sghignazzi da buffone e recupera vocaboli del Tre, del Cinquecento e della parlata toscana. Faldella, scrive Marziano Guglielminetti nella prefazione, è “se si vuole un epigono ma anche un rinnovatore della maniera ironica e riflessiva inaugurata nell’Inghilterra settecentesca dallo Sterne e trasferita in Italia dal Foscolo, traduttore del Viaggio sentimentale del medesimo Sterne”.

Fervente monarchico e patriota, laureato in legge, dal 1881 deputato per quattro legislature, senatore nel 1896, Faldella fu un apprezzato giornalista. “Sulla sua vasta opera la critica è stata divisa – scrivono i curatori della ristampa anastatica, i luinesi Sergio Baroli e Pierangelo Frigerio –. C’è chi lo ha ridotto ad abile manipolatore della lingua… chi ha distinto, apprezzandola, la produzione giornalistica e chi infine… gli riconosce una robusta tempra letteraria seriamente innovativa. Fra i detrattori, un frettoloso Elio Vittorini che nel risvolto di copertina per La Malora contrapponeva Fenoglio ai “provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena”.

Più acuta ed equilibrata è l’interpretazione del critico letterario Gianfranco Contini che arriva alla lapidaria conclusione: “Tolti Verga e il giovane D’Annunzio, accantonato Dossi”, non si saprebbe chi anteporgli nella narrativa italiana dell’ultimo Ottocento”.

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