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Editoriale

LA PAROLA DI DIO

LIVIO GHIRINGHELLI - 04/01/2013

Il Concilio ha voluto significare una rinnovata familiarità con la parola di Dio contenuta nelle Scritture, che diviene criterio di discernimento nelle vicende umane, luce purificatrice che illumina i rapporti della Chiesa con gli altri, siano il popolo ebraico, non più considerato deicida, ma erede di promesse non revocabili, che i cristiani di altre professioni e i credenti di altre religioni, le quali “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” (Nostra aetate 2). Si è così ritrovata la centralità della Scrittura nella liturgia, nella celebrazione dei sacramenti, nella catechesi e nella vita di preghiera. Così il Concilio nella prospettiva di Giovanni XXXIII ha potuto significare al contempo un balzo innanzi verso la penetrazione dottrinale e verso una formazione delle coscienze. E la scuola della Parola istituita da Martini non si è ispirata a criteri di fredda accademia di esegesi, bensì si è risolta in una calda esperienza di vita. Il Concilio ha restituito la Bibbia ai cattolici e con la Dei Verbum ha stabilito il primato della Parola di Dio. “Lampada per i miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino” recita il Salmo 118,105. Non ci si può limitare alle categorie filosofiche e teologiche neoscolastiche. Invece le commissioni preparatorie del Concilio si ispiravano quasi esclusivamente a quei principi.

Yves Congar l’11 ottobre 1962 già dichiarava: la Scolastica non è il fondamento della guida pastorale delle diocesi: ed è a questa che si deve dare ora la parola. Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio auspicava che la sostanza viva del Vangelo venisse approfondita ed esposta secondo i metodi di ricerca e di presentazione utilizzati dal pensiero moderno. E per condurre a termine l’aggiornamento delle strutture e del nostro modo di vivere l’esperienza cristiana noi nella Chiesa dobbiamo guardare il mondo con gli occhi di Dio, pensare in modo aperto, biblico, in grande. Allora le voci profondamente complesse e discordanti della tradizione non riusciranno a sovrastare la parola di Dio; le regole esterne, le leggi, i dogmi, dati per chiarire la nostra voce interna, non ci devono sottrarre al dovere di assumere appieno la nostra responsabilità personale in termini di coscienza, nel continuo confronto con l’illuminazione del Vangelo.

Solo così in libertà possiamo condividere un processo, che liberi la brace dalla cenere, senza mai porre distanza di privilegi o il diaframma di un linguaggio incomprensibile, nella consapevolezza poi che il reale è per definizione velato e non vi abbiamo accesso che attraverso un lavoro di paziente ed umile decifrazione alla luce della nostra intelligenza e dello Spirito (in una nuova Pentecoste). Dionigi l’Areopagita affermava: ciascuno asserisce di possedere la moneta regale, ma in realtà ha forse appena l’immagine ingannevole di una particella di verità. Plurali sono invece le espressioni dello Spirito Santo nelle Scritture e nelle Chiese neotestamentarie. L’afflato della fede profetica impedisca comunque al legalismo ed al ritualismo di soffocare l’anima profonda della religione; non si scambi la rigidità intellettuale con il rigore autentico, spesso burocratizzando la vita di fede: tra il fondamentalismo integrista e la stagnazione del sincretismo l’identità cristiana si ridefinisce come un vasto campo operativo, in cui dominante è la presenza di Cristo col suo Vangelo di carità, con l’invito al dialogo fraterno intra ed extra Ecclesiam. La Chiesa, conscia della sua minorità nel mondo contemporaneo, sa però col suo fondamentale ottimismo che già in terra colla sua testimonianza realizza quel Regno di Dio, che è anticipazione dell’eterno pur nel travaglio dei tempi.

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