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Lettera da Roma

IL DON GIUS E VARESE

PAOLO CREMONESI - 04/10/2013

C’è anche un po’ di Varese nella poderosa biografia “Vita di Don Giussani” scritta dopo oltre cinque anni di lavoro da Alberto Savorana, edizioni Rizzoli. Non solo per la presenza sul territorio dello storico seminario dove il fondatore di CL ha studiato, oggetto di uno specifico capitolo ‘I maestri della scuola di Venegono’, ma anche perché nelle 1202 fitte pagine si rincorrono fatti, volti, nomi, alcuni dei quali appunto che riguardano la nostra città.

A pagina 190 per esempio ci imbattiamo in un ben noto personaggio che ha segnato la vita di tanti varesini . “Nel 1955 Fabio Baroncini (poi prevosto a San Martino in Niguarda) ha quattordici anni. Abita a Lecco e partecipa all’Azione Cattolica. Il suo parroco gli dice: ‘A scuola vai a cercare gli altri dell’AC perché adesso c’è un prete incaricato di seguire gli studenti’.Invitato a un ritiro vede Giussani per la prima volta: ‘Ebbi la netta sensazione – racconta – che fino ad allora l’essere cristiano avesse limitato la mia umanità, perché chi prendeva meno sul serio il cristianesimo, mi appariva più uomo. L’aver incontrato Don Giussani ha invece coinciso con un’esperienza che è stata di pienezza. Il mio ‘io’ finalmente si realizzava in umanità”.

Il libro ci svela poi un interessante particolare inedito, foriero nel futuro di impensabili sviluppi. “Baroncini – prosegue Savorana – è all’origine del primo incontro con Giussani di Angelo Scola, anche lui proveniente da Lecco”. Diamo la parola a quello che diventerà poi l’attuale cardinale di Milano: “In quegli anni l’impatto con il liceo coincideva per me con una perdita di interesse per l’oratorio. Ho cominciato dalla quinta ginnasio a giustapporre due mondi: quello del sabato e della domenica degli amici del paese e della parrocchia e il mondo della scuola, dove invece entrava un’altra logica”. Un giorno di Luglio del ’57, continua il racconto, “…mentre stavo riposando dopo pranzo, tra l’una e le due, ho sentito suonare il campanello. Era Baroncini, il quale chiedeva a mia madre di parlare con suo figlio, ‘quello rosso di capelli’ specificò. Mi invitò a un campo scuola a Passo del Falzarego”. Scola poi vide Don Giussani durante la settimana Santa dell’anno successivo: “La Gioventù Studentesca, ancora legata all’Azione Cattolica, invitò giovani liceali ad alcuni incontri di preparazione alla Pasqua. Giussani svolse una lezione sulla ‘gioventù come tensione’. Per la prima volta percepii un accento diverso nel considerare il rapporto tra Cristo e la mia vita. Ebbi un fremito e cominciai a guardare Cristo in maniera diversa… la mia vita è cambiata in quel momento”.

Poche pagine dopo ci imbattiamo in un altro concittadino. Robi Ronza, giornalista e scrittore, ben conosciuto anche dai lettori di RMFonline, incontra Giussani mentre frequenta la quinta ginnasio a Varese nel 1956 durante uno dei periodici incontri di GS in città. Nato in una famiglia della borghesia laica di cultura post-illuminista, con una tradizione di impegno civile, c’è nella sua vita un forte richiamo a prendere la vita sul serio “ma senza che il fatto cristiano e la Chiesa fossero minimamente chiamati in causa” racconta. Sullo sfondo di queste esperienze l’incontro con Don Giussani è per Ronza una folgorante sorpresa: “Colpiva subito, oltre ad una vastissima e originale cultura, la passione per la vita, la capacità di instaurare immediatamente con ogni suo interlocutore un profondo rapporto personale. Se si metteva a parlare con uno che andava in montagna, era appassionato di montagna; se parlava con un ingegnere, si appassionava di strade. Ma non in modo formale. Si vedeva in lui una passione per l’umano. Per esempio io che già allora mi interessavo di scrittura, mi sono messo a fare un giornale studentesco, il Michelaccio”.

La giornata di inizio anno del 17 Novembre dell’87 a Varese, la nascita della missione in Uganda e del suo martire Francis, raccontata nel libro da un altro varesino, Enrico Castelli, quella del monastero della Cascinazza dove vive l’amico Claudio Del Ponte, il magistero di Monsignor Manfredini sono altri pezzi di questo ‘fil rouge’ bosino che attraversa il libro. Miriade d’incontri che, come sottolinea acutamente un’universitaria (pag 478), “segnava ognuno in modo unico e irripetibile, rincuorato, rinato, fedelmente accompagnato”.

Ed è forse questo il pregio maggiore del libro: restituire la figura integrale e non ridotta di don Giussani in cui tanti di noi hanno potuto imbattersi per i pochi minuti di uno delle migliaia di incontri che caratterizzavano la vita del sacerdote brianzolo. Anche a chi scrive è capitato qualcosa del genere. Insieme ad un altro varesino Roberto Troian, ora corrispondente per la Rai Tgr, lo avvicinai durante una vacanza universitaria. La domanda era di quelle che più adolescenziali non si può: “Come si fa a riconoscere il mio futuro? Qual è la mia vocazione?”. Ci guardò sorridendo. E rispose: “Guarda che la vocazione non la scegli tu. Ti è data”. E subito dopo si lanciò in uno dei tanti racconti che rendevano unico il suo parlare: “Un giovane amico ebbe un grave esaurimento nervoso. Il papà lo fece visitare da uno psichiatra che lo condusse in una stanza. C’era un uomo di spalle che aveva in mano una pila. Illuminava la linea d’angolo del pavimento con il muro e cercava qualcosa. ‘Che cosa cerchi ?’ gli domandò il medico. E lui rispose con il suo nome e cognome. Ecco – concluse – non fate quella fine: la vostra identità, la vostra vocazione è già data. Non c’è nulla da inventare ma solo da riconoscere”. Pochi minuti, una vita.

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