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Società

CIE: IL LIMBO DEGLI STRANIERI

CARLO BOTTI - 14/02/2014

Che cos’è un CIE? Chi si trova al suo interno come prigioniero? E per quali motivi? Perché, nel corso dell’ultimo mese, alcuni immigrati rinchiusi al CIE di Roma si sono cuciti la bocca?

La maggior parte degli italiani, oggi, probabilmente non saprebbe rispondere a tali domande, eppure questi Centri di identificazione e espulsione sono stati istituiti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano, andata via via modificandosi, in ottemperanza ad accordi siglati a livello europeo in tema di immigrazione.

Le strutture, prima denominate Centri di permanenza temporanea, furono create per ospitare gli stranieri verso cui era stato emanato un provvedimento di espulsione ma il provvedimento non s’era potuto effettuare immediatamente per diversi motivi: l’accertamento della nazionalità, la mancanza di mezzi di trasporto o di documenti di viaggio idonei.

 Nel corso degli anni i Centri si sono trasformati in ben altro: prigioni effettive, oltre che “burocratiche”, un vero e proprio limbo per le persone “ospiti”. In Italia esistono tredici centri che “accolgono” quasi duemila stranieri. Due di questi sono stati chiusi: uno a causa di una ribellione interna per la morte di un migrante e l’altro perché le condizioni igieniche sono state riconosciute inaccettabili dall’Asl.

Ma chi finisce all’interno del CIE? Tutti i migranti senza un permesso di soggiorno. Ovvero, possono non esserne in possesso perché sono entrati illegalmente all’interno del Paese o perché, una volta che hanno perso il lavoro, e automaticamente perso il permesso, non sono voluti andare via. Ma a costoro vanno aggiunti anche i richiedenti asilo politico, o meglio quelle persone che sono scappate da un Paese perché perseguitate per il proprio credo politico o religioso o discendenza e gruppo sociale. (L’Italia – articolo 10 della Costituzione, comma 3 – garantisce l’asilo a tutti gli stranieri che non possano esercitare le libertà democratiche).

 Quindi ci si ritrova nella situazione paradossale di finire in pratica in un carcere, che porta il nome di Centro pur conservandone tutte le caratteristiche; un luogo in cui si viene privati della propria libertà personale pur non avendo commesso alcun comportamento penalmente illecito, ma ritrovandosi solo in una situazione giuridica di irregolarità. Ci si ritrova in una prigione in regime di detenzione amministrativa e senza essere stati giudicati nel corso di un processo.

Le condizioni all’interno dei CIE sono spesso inaccettabili. E per questo motivo nel Centro di Roma i migranti hanno dato vita a varie proteste arrivando fino al gesto estremo di cucirsi la bocca.

 La durata massima di permanenza in questi centri in Italia è di centottanta giorni (divisi in periodi di sessanta giorni ogni volta prorogabili su richiesta del questore e convalidati da un giudice di pace). In nessun centro in Europa si ha un termine così lungo. In Francia e Germania è di quarantacinque, in Inghilterra se superiore a cinque giorni, la detenzione deve avere luogo presso uno dei centri abilitati distribuiti sul territorio nazionale e in Spagna la durata massima è di due mesi.

I Centri italiani sono gestiti da associazioni appositamente fondate, dalla Croce rossa o da cooperative. Sono circondati da mura con sbarre e inferriate; gli uomini che vi sono rinchiusi dormono in cameroni, ovviamente sbarrati, senza che si sia tenuto conto delle differenze culturali, mischiati tra loro: immigrati irregolari, criminali in attesa di espulsione, rifugiati richiedenti protezione. Le regole interne non sono definite per legge e questo lascia completa libertà d’azione ai sorveglianti che possono decidere autonomamente di tenerli nelle camerate tutto il giorno, di negare ogni tipo di attività ricreativa, di togliere la possibilità di vedere la tv.

I servizi di base come sostegno legale, mediazione culturale, assistenza sanitaria o sostegno psicologico sono spesso carenti e a volte addirittura non vengono erogati. Le strutture sono completamente inadeguate; i detenuti vengono trattenuti in spazi sovraffollati e possono ricevere le visite solamente dei familiari e, in caso, dell’avvocato.

Tutto questo stato di cose è stato illustrato nel documentario “EU 013 – L’ultima frontiera”. Grazie alla collaborazione con il Ministero dell’Interno, che dunque dovrebbe avere, almeno a livello di conoscenza, il polso della situazione, per la prima volta le telecamere e due giornalisti, Raffaella Cosentino e Alessio Genovese, sono potuti entrare all’interno di questi centri e hanno potuto documentare i casi di forte disagio presenti.

È stato ampiamente dimostrato come l’efficacia espulsiva di un tale sistema sia alquanto ridotta. Caterina Mazza, ricercatrice dell’Università di Torino e autrice del libro “La prigione degli stranieri” indica come neanche il 50% dei trattenuti venga di fatto rimpatriato. Nel documentario è infatti presentata la fattispecie in cui ad alcuni migranti viene rilasciato un permesso di sette giorni per trovare lavoro. Una volta scaduto questo permesso, se trovati di nuovo senza i documenti in regola, i migranti vengono riportati all’interno di un CIE, ridando vita all’iter burocratico e alla condizioni di detenzione.

La dottoressa Mazza, nel suo studio, propone di cercare delle alternative alla politica che fa della detenzione amministrativa il dispositivo principale, o meglio esclusivo, per ridurre le presenze irregolari sul territorio nazionale e ridurre drasticamente l’uso dei Centri ai casi estremamente necessari (come i casi di pericolosità sociale) e, a un tempo, umanizzare la realtà interna e le condizioni di vivibilità delle strutture.

È ovvio che questo approccio alla tematica immigrazione sta dimostrando tutti i suoi limiti. È dannoso sia per i migranti sia per lo Stato accogliente.
Alcune proposte per migliorare le cose sono già state avanzate: si potrebbe pensare all’istituzione di un soggetto garante, come un’associazione che si prenda la responsabilità di assicurare la partecipazione del migrante alle udienze e agli appuntamenti ufficiali previsti; di emanare quindi documenti provvisori con strutture ricettive aperte e controllate.

A Milano già esiste da molti anni – dal 1987 – un’associazione di volontariato laica e apartitica – il Naga – che offre assistenza legale gratuita a richiedenti asilo, a cittadini stranieri irregolari allo scopo di evitare che finiscano in questo limbo burocratico e di diminuire al minimo la loro permanenza in questi centri, se proprio obbligatoria.

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