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Storia

“QUELL’INUTILE STRAGE”

EDOARDO ZIN - 22/05/2015

Cimeli della grande guerra dalla mostra presso la Camera di Commercio

Cimeli della grande guerra dalla mostra presso la Camera di Commercio

Esattamente cento anni oggi, l’Italia dichiarava guerra all’Austria, fino a quel momento sua alleata, assieme alla Germania, a partire dal 1882.

Gli italiani erano divisi: gli interventisti avevano guadagnato terreno nei mesi antecedenti la dichiarazione di guerra; i neutralisti erano frammentati tra la base socialista fedele alla pregiudiziale pacifista, mentre i giovani, i sindacalisti, i radicali fremevano per l’intervento. Anche tra i cattolici si notavano diverse tendenze: gli intransigenti, conservatori e papalini, erano per la pace; un’altra estrema falange cattolica era neutralista; un elemento intermedio, forse il più numeroso, era sì neutralista, ma desiderava guadagnare lo spazio politico perduto dai cattolici durante l’unità d’Italia e premeva per l’intervento, pensando così di salvaguardare gli interessi nazionali.

Il parlamento rappresentava in modo plastico la situazione del paese: molta disgregazione e ci fu chi dalla guerra voleva trarre lezione per il futuro. “Il parlamento – disse – è il bubbone pestifero che avvelena il sangue della nazione. Occorre estirparlo!”.

L’esercito era impreparato, ma all’alba del 24 maggio i fanti del II corpo d’armata attraversarono il confine e sul Sass de Stria, al Falzarego, e sull’Isonzo cominciarono le prime cruenti battaglie.

La guerra costò all’Italia seicentomila morti, mezzo milione di mutilati, interi villaggi distrutti, orfani, vedove, profughi e, terminata la guerra, disavanzo economico, inflazione. Successivamente, dopo il trattato di Versailles, l’ondata di nazionalismo, la dittatura che ci portarono alla seconda guerra mondiale.

Nella “società liquida” d’oggi, in cui dominano la “cultura dell’adesso” e “la cultura della fretta”, bisognerà riflettere e fare memoria in modo onesto di tutti coloro che vissero l’esperienza traumatica delle trincee, di quelle masse di contadini, di operai, di giovani studenti che avevano fatto irruzione nel secolo appena iniziato con l’illusione di trovare nel progresso industriale una via di riscatto sociale e, al contrario, si scontrarono con la logica perversa della guerra.

È doveroso fare memoria delle donne, madri, mogli e sorelle che non hanno visto ritornare a casa i loro uomini e le cui spoglie giacciono oggi nei sacrari e nei cimiteri di guerra che costellano le montagne delle nostre belle Alpi o che sono coricate sotto i ghiacciai dell’Adamello o della Marmolada.

Nell’“era dell’amnesia” dobbiamo ricordare non solo gli atti di eroismo tanto osannati dall’ascesa dei regimi nazionalistici, ma anche gli atti di solidarietà e d’amore compiuti dalle genti del Veneto, del Trentino e del Friuli verso i profughi e i disertori.

Il nostro pensiero si fissa sulle crocerossine, sugli infermieri, sui cappellani militari (e il ricordo corre inevitabilmente a Angelo Giuseppe Roncalli, a Giulio Bevilacqua, a Primo Mazzolari) che con la loro presenza consolarono, dispensarono calore umano, raccolsero le ultime parole dei morenti, interrarono le salme.

A tutti va la nostra gratitudine e perché essa sia densa di senso vorremmo si facesse restituzione di impegni da perseguire con il coraggio della volontà. Questi testimoni della spirale d’odio e di violenza oggi ci interrogano: “Quali sforzi compite quotidianamente perché ciò non si ripeta? Che cosa fate nelle condizioni concrete del vostro vivere quotidiano perché siano rimosse le condizioni ideologiche per abbattere il male, l’ingiustizia, le discriminazioni, le diseguaglianze, i veri e propri dèmoni che possono scatenare un’altra guerra? Le componenti per scatenare un nuovo conflitto ci sono tutte.

La politica è in crisi perché ha annebbiato i nostri orizzonti ideali, riducendosi a gestire il potere ottenuto con parole dette e subito ritratte, con promesse non mantenute, con la mancanza di coesione nei partiti guidati da uomini narcisistici, con istituzioni fondate su una repubblica parlamentare, ma condizionate sempre più dagli esecutivi e da poteri tutt’altro che trasparenti.

Il sindacato scende in piazza e proclama scioperi urlando slogan, battendo tamburi, suonando fischietti come se i diritti calpestati si potessero conquistare con grida sguaiate e non con il confronto delle idee. La scuola soffoca il pensiero critico. Il male sembra ineluttabile.

L’Italia, l’Europa, il mondo hanno bisogno di un sussulto di umanità e di impegno. C’è bisogno di riconciliare la generazione dei padri con quella dei figli.

Noi anziani, che abbiamo udito raccontare da nostri nonni le epopee scritte sul Pasubio, sul Grappa, lungo il Piave, sul Montello non possiamo essere smemorati perché il futuro del nostro paese – ci ha insegnato Cesare Pavese – non è tanto rappresentato dalla massa di giovani frementi, ma poveri di eredità, bensì da noi, ricchi di quel mirabile patrimonio che abbiamo ricevuto e custodito dai nostri padri e antenati.

I giovani, ai quali appartiene l’avvenire, non si rassegnino e puntino il loro impegno nel ricercare e studiare le cause della “inutile strage” e per riflettere sulle conseguenze che da essa derivarono. “Cantino molte canzoni come facevano avanti gli anni oscuri” i loro coetanei prima di affrontare la violenza della guerra, ma non per ripeterla, bensì per “creare un nastro di seta da un mucchio di stracci”. (Tolkien)

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