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Cara Varese

QUEL GIORNO IN PRETURA

PIERFAUSTO VEDANI - 27/11/2015

De Sica e Lollobrigida in “Altri Tempi”

De Sica e Lollobrigida in “Altri Tempi”

Sessant’anni fa avendo sessant’anni di meno la vita era anche allegria perché, per esempio, potevo riscontrare sul campo quanto fosse fondata l’affermazione di un celebre collega, Luigi Barzini jr : Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare”.

Gli inizi del mio percorso di cronista giudiziario mi videro frequentare la pretura, luogo di piccola e semplice giustizia, di tante storie di vita, trascurato da tutte le testate delle città, sempre impegnate sul fronte delle storiacce, vere o presunte.

Lontana dal palazzo di giustizia, la pretura comasca occupava un piccolo e storico edificio del centro antico: l’aula delle udienze era la più ampia, ma certamente inadatta al servizio che svolgeva, come del resto i piccoli uffici di pretori e cancellieri.

Per me la pretura fu un luogo molto formativo perché mi offrì la possibilità di un rapporto sempre molto rispettoso ma, complici gli spazi ridotti, con il tempo quasi familiare con i magistrati. Contatti preziosi ai fini di articoli semplici ed efficaci anche in presenza di cavilli e polemiche tra addetti ai lavori. Le dispute giuridiche non hanno età.

Dopo il delitto di Villa d’Este – una contessa aveva fulminato il suo amico a colpi di pistola – la giustizia con le sue cronache aveva scatenato l’attenzione dei lariani e, come prospettiva professionale, pure l’interesse dei giovani.

Io integravo le presenze alle lezioni universitarie con la frequentazione dello studio di un civilista, dove però progettai il piano di fuga verso il giornalismo: avevo constatato che nulla è più indigesto e noioso di quella pizza che sono il diritto civile e le sue branche. Nemmeno frequentando il mondo del diritto penale pensai che avrei potuto fare l’avvocato e tirai diritto, anche se i compensi dei legulei erano ben altri rispetto a quelli degli scribi.

La magistratura esercitava invece su tutti un fascino molto forte: ruoli di grande responsabilità, impegno culturale elevato, ma compensato da carriere prestigiose. Tutto ok, ma anche in famiglia erano perplessi a causa della mia tendenza al disordine, alla distrazione e pure a cogliere sempre il lato comico delle situazioni anche quando era sconsigliabile.

Ci fu un episodio che mi convinse a perseverare come cronista. Come a dire che ho fatto il giornalista per allegria, però….

Il termine pretura a molti può evocare avvenimenti e una umanità che scrittori, registi e attori hanno consegnato con successo alla letteratura e alla storia del cinema. Accadde anche a me. Si doveva far luce anche su una foto di una ragazza come mamma l’aveva fatta e nella stessa posa della “Maya desnuda” di Francisco Goya, uno dei dipinti per varie ragioni più discussi della storia dell’arte. La ragazza, presente come teste al processo, doveva chiarire le ragioni che l’avevano indotta al singolare dono d’amore – così aveva anticipato la difesa – fatto al fidanzato presente in aula in stato di detenzione.

Io mi ricordai di Vittorio De Sica dieci anni prima nel film a episodi “Altri tempi” che con una arringa strepitosa convinceva i giudici a scarcerare una “maggiorata fisica”, nel caso specifico la Lollobrigida. Il motivo? Se la legge era giustamente tenera con i minorati psichici doveva esserlo anche con chi era una… maggiorata fisica.

Mi preparavo a un racconto divertente da offrire ai miei lettori, invece la vicenda ebbe una svolta veramente tumultuosa. Il processo era programmato per il mattino, ai detenuti si dà la precedenza, ma per una serie di intoppi si iniziò nel tardo pomeriggio, la qual cosa fece infuriare il nuovo Goya che attendeva da ore. Alla prima domanda del pretore rispose che se ne fregava della domanda e pure di lui. E subito dopo fu come se fosse crollata una grande diga che raccoglieva fiumi di termini non da educande.

Calmissimo il magistrato diede una rapida occhiata al codice per la conferma di quanto già sapeva, ovvero che non poteva essere lui a giudicare l’imputato che l’aveva offeso durante l’udienza. Poteva però procedere a un immediato interrogatorio. Trasferimento di tutti nell’ufficio del pretore situato accanto all’aula delle udienze, nella quale ero rimasto solo perché la Maya, vestita, si era allontanata. Un paio di minuti di silenzio ed ecco il fragoroso crack di una vetrata infranta, poi urla e rumori fortissimi. Mi precipitai appena in tempo per il finale. Non so se di recente abbiate visto Nuova Zelanda-Australia, il meglio del rugby moderno: carabinieri e imputato nel piccolo locale erano scatenati in una mischia furiosa davanti al pretore, che pur avendo schivato un grosso calamaio di cristallo tiratogli dall’imputato e finito contro una grande vetrina andata in pezzi, impassibile attendeva l’esito della lotta.

Il match rugbistico tra carabinieri e imputato aveva come “prato” sotto di loro se ricordo bene il cancelliere i cui ululati battevano per potenza le sirene di una nave da crociera. Smisi di ridere in tempo, cioè quando il pretore congedandomi, mi disse che sarei stato convocato come teste al processo.

Cominciando da una situazione per certi versi comica, per alcuni decenni ho poi seguito da cronista l’attività dei magistrati, le evoluzioni della loro categoria, i loro problemi, mai rinnegando vicinanza sincera anche quando forse accostandosi troppo ad alcune realtà di potere della società nazionale hanno perso un pizzico della estrema lucentezza del passato e dell’amore e della riconoscenza degli italiani per il loro impegno, a volte sino all’estremo sacrificio, nel contrastare terrorismo e mafia.

Varese, che non ha patito riflessi pesanti per le situazioni succedutesi nel tempo, in questi giorni ha salutato un pm, Agostino Abate, che dopo trentun anni è stato trasferito a Como, dove all’inizio degli Anni ‘60, ho conosciuto un suo giovane collega, Mario Del Franco. Un magistrato che mi è stato anche maestro di vita: aveva carattere dolce, ma fermezza estrema nel lavoro. Non ho mai conosciuto peraltro un pm che invece di giocare da roccioso stopper si esibisse da elegante mediano.

Grazie di cuore allora anche ad Agostino Abate e buon lavoro nella realtà comasca, molto interessante però meno permeabile della nostra. Non a caso sentiamo Milano umanamente più vicina e amica. Quando non c’è di mezzo la politica.

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