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Società

APPLAUSI PER IL MORTO

GIOIA GENTILE - 26/02/2016

funeraleNon è il titolo di un thriller. È ciò che succede in quasi tutti i funerali da diversi anni a questa parte, e ogni volta mi chiedo che senso abbia. Si applaude uno spettacolo, e lo si fa perché è divertente, perché se ne condivide il messaggio o perché si apprezzano le doti degli artisti. Ma perché applaudire il passaggio di una bara?

Forse in questo modo si vogliono riconoscere le qualità del defunto? Ma se si ritiene che la vita finisca con la morte del corpo, si sa anche che il morto non li sentirà quegli applausi. E se si crede invece che esista un aldilà, si può anche credere che ci sia un modo diverso e meno rumoroso di comunicare con chi non c’è più: con il pensiero o con la preghiera. Se poi si vuol dimostrare a chi resta partecipazione e affetto, quanto è più consolatorio un abbraccio silenzioso! Ultimamente, invece, al rito dell’applauso se ne sono aggiunti altri: le magliette “in memoria” e il lancio di palloncini. Mi aspetto, tra non molto, le ragazze pompon.

Viviamo in una “cultura” in cui solo ciò che appare ha valore, e più fa rumore più si crede che ne abbia. Così la musica deve essere spacca – timpani, i concerti si tengono negli stadi di fronte a platee urlanti, i motorini vengono modificati per poter rombare come Ferrari, i talk show televisivi non sono interessanti se le voci non si accavallano e se non scoppia la rissa.

Forse ciò dipende dal fatto che abbiamo paura del silenzio, perché nel silenzio ci troviamo faccia a faccia con dubbi e domande per i quali non abbiamo più risposte. Soprattutto abbiamo paura del silenzio della morte, perché ci lascia sgomenti di fronte all’eterno problema: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? “ Dio è morto, Marx pure ed anch’io non mi sento molto bene” diceva Woody Allen con una delle sue fulminanti battute. Allora meglio il rumore, per non correre il rischio di riflettere, per esorcizzare i fantasmi. Meglio applaudire ai funerali, come se lì non ci fosse il mistero.

Già molti hanno fatto notare come la morte sia stata espunta persino dal lessico. Il defunto non è mai morto: è scomparso, ci ha lasciato, è mancato, con tutte le imbarazzanti situazioni che si vengono a creare di conseguenza. Perché se li leggi in un necrologio questi termini li capisci, ma se qualcuno li usa in una conversazione, ti crea problemi: che dire a un’amica che ti confida che il marito l’ha lasciata? Le fai le condoglianze o le chiedi se c’entra la segretaria? E se è scomparso? Puoi consigliarle “Chi l’ha visto?” senza fare una gaffe? La morte, unica certezza della vita, è rimossa; persino la scienza cerca di spingerla sempre più in là ed esulta nel comunicarci che vivremo fino a 120 anni (ma non ci spiega perché mai dovremmo gioire di una protratta demenza senile).

Di fronte alla morte, il silenzio e l’applauso hanno la stessa origine, ma direzioni opposte. Piangiamo in silenzio per noi stessi, per quella parte di noi che se ne va con l’amico. E applaudiamo per noi stessi, ma per affermarci vivi, per negare il nostro essere transitorio ed effimero: eleviamo l’effimero a sostanza e ci illudiamo che applausi, palloncini e magliette annullino il problema. Nel primo caso, riconosciamo la realtà e la affrontiamo; nel secondo, la neghiamo e preferiamo la fuga.

Ma è una fuga senza meta. Alla morte si addice il silenzio.

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