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Donne

PRIGIONIERA DEL CORAGGIO

LUISA NEGRI - 11/03/2016

tessituraLavorante della Tessitura Bernocchi di Angera, Luigia Ponti (1874-1957) venne arrestata nel 1913 con altre compagne di lavoro durante una dimostrazione operaia. Condotta nel carcere di Gavirate, fu poi processata e assolta per insufficienza di prove. L’episodio fu registrato dai giornali dell’epoca e si immagina qui raccontato dalla voce di un’ amica di Luigia.

 Il cielo scuro di quel febbraio 1913 non prometteva niente di buono. E anche i corvi che volavano bassi già di primo mattino le parevano un brutto segno. Era uscita a pigliare l’acqua al pozzo per lavarsi, e aveva dovuto rompere col secchio la lastra del ghiaccio. Poi l’aveva buttata nel pentolone, sul fuoco, per farla scaldare. La cucina odorava ancora della minestra della sera prima e i tre figli dormivano nella camera di sopra, accanto al fienile. Le sarebbe piaciuto rimanere nella sua casa, tra quegli odori rassicuranti, e guardare il mondo da dietro i vetri come una sciùra. Le sarebbe piaciuto, almeno qualche volta, attardarsi nel letto e far finta di potersene stare lì, ad aspettare che il sole scaldasse l’aria, e svegliarsi coi figli quando la luce invadeva le stanze a mattino inoltrato. Invece le toccava correre in tessitura ch’era ancora buio e lasciare i bambini alla vicina. Le dispiaceva soprattutto di non vederli appena svegli, di non essere lì a dargli il buongiorno e fargli dire le prime preghiere. La Pina s’imbrogliava sempre sull’Angelo di Dio che sei il mio custode e s’impuntava sul cchetiffuiaffidattodallapietacelètte.

Ma quel giorno la mia amica Luigia non poteva mancare. Quel giorno ci sarebbe stata battaglia, per lei e per tutte le altre donne della tessitura Bernocchi. Avevano deciso lo sciopero, e sciopero doveva essere. Non avrebbero toccato né telai né macchine. Il padrone se le sarebbe ritrovate tutte assieme, le braccia conserte, davanti allo stabilimento. Questa volta dovete farvi sentire, aveva detto la Rachele, questa volta o mai più. Perché le paghe sono da fame. Erano da fame sì. La Rachele presiedeva l’Unione operaia, sapeva quello che diceva. E poi aver lasciato la campagna per farsi affamare dal padrone non le pareva una cosa ben fatta.

Sarebbe crepata davanti alla fabbrica, un colpo di schioppo nella schiena, e via, piuttosto che continuare a farsi prendere in giro. Con quei tre soldi la mia amica non ci campava, e quanto le mandava il Péder dalla Francia, col suo lavoro di capomastro, non era sufficiente a tirare avanti la baracca. Ma perché avrebbe dovuto sgobbare tanto in fabbrica, se poi le mancavano anche i soldi per le medicine della Pina, quando la piccinina sì buscava qualche malanno? Da quando s’era messa alla tessitura e la mandava all’asilo, mi raccontava, la Pina era sempre malata. O sarà stato anche perché in casa il freddo era freddo, soprattutto quell’anno, e le pareva che anche la cucina, come le camere, fosse sempre gelata. Così però non si poteva tirare avanti. Aveva ridotto tutto, dal mangiare ai vestiti, alla legna per il fuoco, fino alle cose meno necessarie. Per vestire i figli la sera lavorava di filo e di ago, tagliava e cuciva, riduceva i calzoni vecchi del Péder, o le sue gonne fruste. Qualche pezzo più elegante del corredo era stato sacrificato già da tempo per le maglie di sotto. Quando nei giorni di festa l’ambulante arrivava in cortile e deponeva la merce sotto il portico la Luigia andava con i bambini per mano a vedere le novità. Le piaceva sapere cosa usava, informarsi sui prezzi, osservare le belle sete e i velluti, i nastri di pizzo e raso -anche se non erano roba per lei- perché, lavorando alla tessitura, ne capiva. S’immaginava quanti bei capi si sarebbero potuti fare con quelle stoffe, con quella passamaneria fina. Se trovava, quando capitava l’occasione, prendeva qualche scampolo a peso.

L’ambulante vendeva anche bambole di pezza e giocattoli. L’ultima volta la Pina s’era impuntata su di una palla a spicchi colorati. Ma costava troppo. Lei l’aveva strappata via con la promessa di tornare a prendergliela, dopo il sonnellino del pomeriggio. Mi aveva confidato che l’era pianto il cuore per qualche giorno, per quella bugìa, finché la Pina non s’era stancata di chiederle dove fosse finito l’omino col carretto.

Avevano perso tutto in America, lei e il Péder. Erano andati là, appena sposati, chiamati dai parenti, e le cose s’erano avviate bene. Cucinavano per gli immigrati italiani e la clientela non mancava. Poi il terremoto aveva bruciato la locanda e li aveva messi in ginocchio.

Erano tornati in Europa: in Germania. Era più facile trovare lavoro là, ma anche per non far vedere al paese che rientravano senza una lira. In Germania s’erano dati da fare. Lei aveva sfruttato di nuovo le sue doti di cuoca, con un certo successo. Però, anche quella volta, la fortuna non s’era messa dalla loro. Erano state le decisioni della Storia, di quelli che comandano il mondo, a costringerli a rimpatriare. Così il Péder aveva trovato un posto di muratore in Francia e lei era rimasta ad Angera, rimediando un posto in fabbrica. La mia amica Luigia era minuta ma energica, sapeva farsi obbedire e insegnava alle piccinine, appena arrivate alla Bernocchi, a lavorare e rispettare le regole.

Anche in casa i figli filavano diritto: avevano assaggiato la vergèla, sulle gambe. Perché, quando non hai un uomo vicino a far crescere dritti i figli, devi saper usare la vergèla, anche se il cuore piange mentre l’adoperi.

Ma per farsi ascoltare dal padrone lei aveva solo la possibilità di incrociare le braccia. Buttò sulle spalle lo scialle nero dell’inverno e uscì nel gelo della mattina. La fabbrica distava un centinaio di metri da casa. Non le piaceva dover fare quella parte, proprio lei che insegnava alle nuove venute a rispettare le regole. Non sarebbe stato più bello poter guardare dritto negli occhi il padrone, e far

patti chiari per il posto e il salario, vedersi insomma riconosciuta tutta quella fatica con il rispetto e la considerazione che lei e le altre donne si meritavano? Ma cosa capiva lui dei loro patimenti? Forse non aveva mai assaggiato il salice sulle gambe. E non aveva mai provato la mortificazione d’essere senza soldi per le medicine dei figli. E non sapeva neanche cosa voleva dire aver preso il piroscafo e essere partiti per l’America. Non tutti hanno il coraggio. Lei l’aveva avuto. Appena sposata aveva seguito il suo uomo: l’avrebbe seguito in capo al mondo. Se non ci avesse messo la coda il diavolo, avrebbero saputo anche loro fare un poco di soldi e vivere bene. Ma qualcuno non l’aveva voluto. Non se l’era mai presa con la sorte. Ognuno ha la sorte che gli tocca, e quello che Dio vuole va bene lo stesso: basta volersi bene e avere la forza di combattere, di andare avanti. L’intelligenza del resto il Padreterno gliel’aveva data. Sapeva parlare e scrivere l’italiano correttamente e quando era stata lontana da casa, tra i forestieri, aveva imparato a cavarsela anche là. La Pina era nata in Germania e, quando era venuta al mondo, la levatrice aveva creduto che fossero due tedesche, la madre e la figlia, tanto lei parlava bene la lingua. Dei suoi tre figli andava fiera. Era soprattutto per loro che non si arrendeva, che aveva deciso di tener duro.

Stavano arrivando tutte, tirate in viso e serie come lei. Qualcuna più agitata, qualcuna impaurita. Ma tutte s’erano passata parola, da lì non le avrebbero mosse. Anche se il padrone aveva promesso battaglia e aveva già interessato il maresciallo: nel caso loro avessero insistito.

La dichiarazione di guerra, nero su bianco, era stata intimata fin dal giorno prima. Il padrone aveva fatto affiggere un cartello all’ingresso della fabbrica: invitava le scioperanti a rientrare nello stabilimento e minacciava di licenziamento quelle che non si fossero presentate. Erano entrate solo in quarantacinque : ma erano le operaie ospiti del convitto della ditta, le foreste che non potevano dire di no.

Nel giro di mezz’ora fu chiaro che le cose s’erano messe come avevano deciso le donne e come non piaceva al padrone. Lui continuava a non farsi vedere, naturalmente. In compenso c’era tanta gente intorno. Non era più solo un affare tra le operaie e la proprietà, stava diventando un affare di tutti, e questo alla Luigia e alle sue amiche non stava bene. C’erano tipi di tutte le risme: compaesani e simpatizzanti, ma anche curiosi e loschi sobillatori. Le donne cominciarono a intonare i canti di protesta, disponendosi a far barriera contro le crumire, ch’erano arrivate accompagnate dal delegato Sansoé e dal tenente dei carabinieri Barisone con dodici dei suoi uomini.

“Tornate ai vostri posti di lavoro, lasciate lavorare quelle che vogliono portare a casa la paga per i loro figli” intimò il Sansoé.

“Le chiamate paghe? Inn pag da famm! Cusa ghe fémm cunt i danée dal nost padrun? Cal faga minga riid, sciùr maresciall…” replicò una voce.

“Cal vaga a cà da la so dona, al vedarà ca la ga dà rasun a nunch. Al ga dumanda se la fa minga fadìga anca lé a tirà avanti, al faga no di stori cunt di poar donn…”.attaccò un’altra. ” Al varda che ul gieugh el riscia da fàss periculus. Nünch stavolta a tegnumm dür. Emm decidù tücc insémma, e insémma chi a rèstumm”.

Partì un sasso da dietro la tessitura. Poi fu una vera e propria sassaiola. Le donne non c’entravano. Ma qualcuno voleva far esplodere la contestazione, perché gli animi cominciavano ad accendersi e a ribellarsi. Anche la schiera di ragazzi in divisa stava per perdere il controllo. Il maresciallo ordinò di attaccare. Le donne non arretrarono. Si fecero avanti con la forza della disperazione la Luigia, la Maria, la Teresa, la Caruleu e la Rachele. Tutte le altre le seguirono, diritte e dignitose nella loro protesta, ignorando le armi puntate dei carabinieri.

Si trovarono faccia a faccia, le donne e gli uomini. Questi, per impaurirle, agitarono i moschetti. Ma nessuna si mosse. Allora il calcio dei fucili cominciò a calare sulle braccia delle donne e le grida e la confusione e la paura salirono nell’aria. Volarono botte e insulti. Finché qualcuno si mise a urlare che il delegato era stato ferito e perdeva sangue da una guancia. Nella colluttazione era inciampato ed era andato a sbattere contro un filo di rete metallica.

Tanto bastò perché la furia degli uomini e del maresciallo debordasse. La Rachele, la Luigia, la Maria e la Teresa, che avevano marciato davanti alle altre, si sentirono afferrare dalle mani forti dei carabinieri e furono portate via.

Le aspettava la cella fredda del carcere di Gavirate. Quella sera i figli della Luigia furono accuditi dalla vicina di casa. Non seppero, perché nessuno glielo disse, che la loro madre, “la moglie del Péder – così girò la notizia per il paese- era finita in prigione con le sue amiche”.

E come avrebbero potuto capire, i bambini, che per quattro soldi di stipendio si può anche andare a finire nelle vecchie galere di paese, come i ladri e i vagabondi?

Il processo si svolse nel mese successivo. La mia amica Luigia e le compagne arrestate furono assolte per insufficienza di prove. Rachele Giudici, la presidente della Unione operaia fu condannata “a mesi tre di reclusione con la condizionale”.

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