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Spettacoli

IL NUOVO FARWEST

MANIGLIO BOTTI - 08/04/2016

tarantinoDopo Ennio Morricone e dopo l’Oscar attribuitogli (finalmente) per la colonna sonora di The Hateful Eight, di cui si è già detto, mette conto di parlare un poco, anche se a distanza di qualche settimana, del film di Quentin Tarantino. Un capolavoro o una noiosa esercitazione? Il regista americano, relativamente giovane – ha cinquantatré anni –, ma affermatissimo, e da tempo nel genere, specie per le sue ossessioni pop-violente, va sempre preso a scatola chiusa: o lo si ama o lo si rinnega; qualche volta lo si sopporta.

Di The Hateful Eight – una traduzione possibile potrebbe essere Quelle otto carogne – s’è parlato come di un western, e anche Tarantino, un amante di questa specialità, l’ha accettata come collocazione; il suo secondo western, in tempi recenti, dopo Django Unchained. In realtà – il giudizio naturalmente è molto personale – The Hateful Eight va oltre il genere western, ben più di Django. Esso, nonostante specie nella primissima parte di un perfetto rigore stilistico e ambientale (periodo la fine della guerra civile americana, paesaggio invernale del Wyoming), si pone quasi in una condizione atemporale. Tale condizione si acuisce nell’emporio-trading post di Minnie (ma Minnie misteriosamente non c’è), dove ad attendere la diligenza sorpresa dalla bufera, e con a bordo due famigerati cacciatori di taglie, un’efferata donna-bandito destinata al patibolo, Daisy Domergue – una citazione per tutti: magistrale l’interpretazione di Jennifer Jasons Leigh –, e un presunto neo-nominato sceriffo, si trovano un messicano, un boia, un cowboy e un ex generale confederato. L’emporio diventa così una sorta di microcosmo di umanità, ma forse di non umanità…

I paragoni eventuali e possibili con il film capostipite del genere western Ombre rosse (Stagecoach di John Ford, 1939) sono del tutto inadeguati. Là la psicologia e la dinamica comportamentale dei personaggi raccolti sulla diligenza era romantica, romanzesca forse, di certo più adatta ai tempi e ai sogni degli spettatori. Lo stesso se si effettua una cavalcata cinematografica di una trentina d’anni, dopo Ombre rosse, per arrivare fino ai Compari (McCabe and Mrs. Miller, 1971, di Robert Altman). Anche qui, nel bordello di una cittadina mineraria del Nord degli Stati Uniti, in pieno inverno, potremmo rinvenire qualche legame almeno ambientale con l’emporio aggredito dalla bufera del film di Tarantino. Ma siamo ancora in una dimensione romantica, forse addirittura crepuscolare. Anche se Altman, insieme con Arthur Penn, con Sam Peckinpah e con l’italiano Sergio Leone, negli anni tra i Sessanta e i Settanta, fu definito un “revisionista” del western.

Quentin Tarantino è ben più che un revisionista. Si fa fatica, sebbene se ne intuisca gli intenti, a definirlo. Potremmo dire, un po’ banalmente un trasgressivo, un postmoderno… Il genere western a questo punto – si tratta sempre di un giudizio più che personale – come fu per il film più famoso e celebrato di Tarantino stesso (Pulp Fiction, 1994, ma magari anche per il successivo Inglorious Basterds, del 2009) – diventa solo un pretesto entro il quale incasellare le ossessioni del regista, le sue vedute certamente dimensionate in una fiction cinematografica ma forse legate anche a un’ipotizzata e attuale condizione dell’umanità, all’uomo d’oggi. Ed è così che la violenza nel suo eccesso – ciò accade anche e soprattutto in The Hateful Eight – appare inverosimile, talvolta risibile. Ma anche portatrice di una sottile inquietudine. Pensiamo, tanto per continuare nei paragoni, a Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Dead of Alfredo Garcia, di Sam Peckinpah, del 1974), che non era un western ma gli assomigliava; al pianista di terz’ordine Benny che gira per il Messico con una macchina scassata, cercando di consegnare a un fazendero la testa tagliata e custodita in un sacchetto di cellophane riempito di ghiaccio dell’uomo che ha messo incinta sua figlia. Siamo anche qui in una situazione surreale, e tuttavia – chissà perché – ancora credibile, e forse in qualche modo possibile.

Nel film – nei film – di Tarantino, a parte le sue passioni per un tipo di western anche nostrano (Sergio Leone e, forse, Sergio Corbucci, molto più fumettistici), si va ben oltre. Quando nella scena finale di The Hateful Eight il cacciatore di taglie Mannix e il neo-sceriffo Warren, morenti, issano, impiccandola, a una trave del soffitto dell’emporio Daisy Domergue, che s’è liberata dal braccio di Ruth, l’altro cacciatore di taglie che la teneva incatenata, amputandoglielo con un machete e ora penzolante, il loro ghigno disperato e assurdo è tutto da vedere. E naturalmente anche il film. Magari ci aiuta a capire qualcosa. Non più i nostri sogni. Se non altro rafforza i nostri incubi.

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