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Presente storico

PICCOLI TRUMP CRESCONO

ENZO R. LAFORGIA - 29/07/2016

bilingue«[…] Quando si scrive una poesia è frequente la serendipità: miri a conquistare le Indie e raggiungi l’America.»

Così Andrea Zanzotto, in un volume del 2011 che documenta la passione del poeta per le immagini in movimento, definiva quel fenomeno, la serendipity, che consisterebbe nel trovare fortuitamente qualcosa mentre si cercava tutt’altro. È una circostanza che tutti i naviganti del gran mare virtuale (cioè di internet) hanno sicuramente sperimentato. Naufragando di link in link, capita che saltino agli occhi informazioni non cercate eppure utili e preziose o semplicemente curiose.

Con lo stesso spirito del naufrago felice mi capita di visitare le librerie, di girare per mensole e scaffali, di assecondare le sirene che provengono da copertine seducenti, da titoli accattivanti, da autori ignoti. E sempre abbocco lietamente di fronte a tante esche, diventando io, poi, pescatore, uscendo, sempre, con qualche ghiotta preda sotto il braccio.

Recentemente, in una libreria milanese, mentre mi perdevo in questa pratica oziosa, mi è saltato agli occhi un libretto di Boris Pahor. Ora, Boris Pahor è un autore ben rappresentato tra gli scaffali della mia personale biblioteca. Per quei pochi che ancora non conoscono questo monumento vivente del ventesimo secolo (il mese prossimo festeggerà i 103 anni), mi limiterò a ricordare che è uno scrittore di lingua slovena, che vive a Trieste, nella frazione di Prosecco (Prosek, in sloveno), e che in Italia, dopo che già era ben noto in Francia e in Germania, ha conosciuto un travolgente successo quando l’editore Fazi ha riproposto, con una introduzione di Claudio Magris, il suo Necropolis, un capolavoro paragonabile, per potenza letteraria e valore testimoniale, a Se questo è un uomo di Primo Levi.

Il volume di Pahor che mi è capitato di scoprire in libreria si intitola Quello che ho da dirvi. Dialogo tra generazioni lontane un secolo, pubblicato nel 2015 per i tipi dell’editore veneto Nuovadimensione. In queste pagine sono raccolte le conversazioni che, nel 2014, lo scrittore ha intrattenuto con alcuni giovani studenti di un istituto di istruzione superiore di Gemona del Friuli (nati tutti ottantadue anni dopo la venuta al mondo di Pahor), guidati dai loro insegnanti, Angelo Floramo, Flavia Valerio, Alberto Vidon.

Il libro si apre con la domanda di una studentessa: «Si sente più italiano o più sloveno?», chiede Sofia. Boris Pahor risponde come spesso hanno risposto e rispondono coloro che vivono «a cavallo di due culture» (come ha detto una volta Salman Rushdie): «Io mi sento sloveno e su questo non si discute; sono di nazionalità slovena ma sono anche italiano. Sono un cittadino sloveno e un cittadino italiano, anche se non si può dire che io sia uno scrittore italiano. Possiamo dire che sono uno sloveno che scrive in sloveno in Italia, ecco, questa è una formula più corretta».

Niente di nuovo…

Tuttavia, dopo qualche riga, Pahor mette in guardia sul rischio di confondere «cittadinanza» e «nazionalità». E invita i suoi giovanissimi interlocutori a riflettere su un aspetto, cui io, personalmente, non avevo mai posto attenzione: «Se guardate la vostra carta d’identità […] vedrete che c’è scritto cittadinanza italiana: non c’è scritto nazionalità italiana». Boris Pahor ha conosciuto sulla sua pelle i rischi che scaturiscono nel momento in cui uno Stato equipara i due concetti: nelle terre di confine, come Trieste, il fascismo impose una italianizzazione forzata dei cognomi e dei nomi delle località nonché l’uso esclusivo della lingua italiana nelle scuole. Si trattò, come ha scritto qualcuno, di un onomasticidio di Stato. Durante gli anni del fascismo, lo scrittore scoprì presto che «bisognava essere due persone in una».

In questi ultimi anni (in realtà avremmo dovuto accorgercene ben prima), stiamo scoprendo in modo drammatico ciò che Chantal Mouffe, politologa di origine belga ma docente presso l’università di Westminster, ha definito il «paradosso democratico», perché con la democrazia (formula politica alla quale, credo, non vorremmo rinunciare) la cittadinanza si manifesta in tutta la sua problematicità. In un regime democratico, infatti, la cittadinanza (cioè il rapporto giuridico tra individuo e Stato) si configura come un oggetto a più dimensioni: aperta, transnazionale, cosmopolita, evolutiva, espansiva. L’equazione tra cittadinanza e nazionalità posta a fondamento degli Stati in età moderna sembra ormai tramontata. E tuttavia, ciò che definiamo come «cittadinanza democratica» si presenta a noi come un grumo di problemi a cui non riusciamo a dare risposta (rubo queste riflessioni al filosofo Étienne Balibar e al suo volume Cittadinanza, uscito in Italia nel 2012).

I «fantasmi» che agitano le «menti psicotiche» (come ha scritto Massimo Recalcati sulla «Repubblica» del 22 luglio scorso), quelle che hanno dato vita a quel terrorismo diffuso con cui dovremo fare i conti per molto tempo, sono nati tra di noi, nelle nostre società, all’interno dei nostri Stati, hanno velato la ragione di nostri concittadini. «Sono tedesco!», gridava il diciottenne autore della strage consumatasi a Monaco qualche giorno fa, mentre da un balcone qualcuno lo apostrofava «straniero» o «turco».

Il 23 novembre 2015, dieci giorni dopo la mattanza parigina in cui hanno perso la vita 130 persone e centinaia sono stati i feriti, il filosofo Alain Badiou ha tenuto una conferenza presso il teatro della Commune d’Aubervilliers, appena fuori Parigi, dal titolo Pour penser les meurtres de masse. (Questo intervento può ora leggersi in traduzione italiana, pubblicato recentemente da Einaudi: Il nostro male viene da più lontano. Pensare i massacri del 13 novembre.) Badiou, in quella occasione, conduceva la sua analisi con gli strumenti della filosofia marxista. L’indebolimento degli Stati, secondo lui, procede di pari passo con l’affermazione del capitalismo globalizzato. Ciò ha generato e genera «uno sviluppo iniquo senza precedenti», un tale livello di diseguaglianza, per cui «parlare di democrazia o di norma democratica non ha più alcun senso». Tra un’oligarchia che aumenta a dismisura la propria ricchezza e una classe media, che vede erodere la propria condizione di benessere, minacciata da una massa sempre crescente di indigenti, si insinua, proprio grazie allo spettacolo dell’espansione mondiale del capitalismo offerto dai nuovi media, quello che Badiou definisce un «fascismo moderno». Questo nuovo fascismo viene definito come «una pulsione di morte articolata in un linguaggio identitario».

Io non so bene se l’analisi di Badiou sia quella giusta. Pone comunque, implicitamente, il problema di quel «paradosso democratico» di cui si diceva. Non ce la caveremo, credo, invocando (ancora!) lo spettro di una guerra di civiltà o di religione né alimentando la rabbia furiosa verso un nemico, di cui però non riusciamo a delineare un chiaro profilo.

Penso abbia fatto bene Manuel Valls, quando, dopo la strage di Nizza, ha denunciato il rischio di una «trumpisation des esprits». E il rischio che, nell’attuale contesto, piccoli Trump nostrani crescano è, come sappiamo, molto elevato. Il nuovo terrorismo diffuso, con cui ormai dobbiamo fare quotidianamente i conti, non può mettere in discussione i presupposti culturali e giuridici del nostro stato di diritto. Questo, sì, sarebbe il miglior trofeo che ogni fanatismo violento potrebbe esibire.

Manuel Valls ha ottenuto la cittadinanza francese nel 1982, all’età di vent’anni. È figlio di un padre catalano e di una madre ticinese; è nato a Barcellona e il suo padrino di battesimo è stato un italiano. Dalla primavera del 2014 è primo ministro della Repubblica di Francia.

 

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