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Attualità

FESTIVAL ITALIA

MANIGLIO BOTTI - 11/02/2012

Il Festival di Sanremo risuona nella sua sessantaduesima edizione. Ha superato bene il genetliaco di diamante che, nello stesso 2012, la regina Elisabetta II celebra invece con il regno di Gran Bretagna: un lungo cammino, attraverso spezzoni di due secoli.

Fosse per me, con scelta personale e arbitraria, isolerei la storia del Festival di Sanremo al solo decennio 1961-1970. È qui infatti che il Festival si consolida e acquisisce per sé una valenza mitica, che poi si riverbera negli anni a venire. Procedendo con una sorta di zoom immaginario, metterei poi a fuoco i tre anni centrali del periodo considerato: il 1964, il 1965 e il 1966. A presentare la manifestazione è Mike Bongiorno, accompagnato volta per volta da brave attrici o presentatrici di fiducia. L’evento si svolge in due serate a eliminazione e in una finale, tutte riprese dalla Tv nazionale.

Nel ’64 il Festival porta la “novità” degli stranieri che eseguono lo stesso pezzo dei cantanti italiani, non in qualità di ospiti d’onore. Tra gli altri, Paul Anka e Gene Pitney. Vince Gigliola Cinquetti (Non ho l’età), ma a fare il pieno del successo sanremese è Bobby Solo (al secolo Roberto Satti, di Roma) con la canzone “Una lacrima sul viso”. Si pensi che con questo brano Bobby vende quasi due milioni di dischi. Una performance incredibile se – nel futuro – accadrà che di tutti i pezzi eseguiti al Festival si riuscirà a vendere trenta, quarantamila copie.

Nel ’65 Bobby Solo vince ufficialmente il Festival (Se piangi, se ridi), e viene sancito il principio per il quale il Festival “risarcisce” l’anno successivo chi l’anno precedente aveva spadroneggiato senza l’alloro del primo posto: era già accaduto con Tony Renis; ma non accadrà in seguito con Toto Cutugno, spesso eterno secondo.

Nel ’66 Gigliola ritorna prima (Dio, come ti amo!) in accoppiata con Domenico Modugno, uno dei grandi del Festival. Stavolta la kermesse, più che per la canzone vincente, si caratterizza per la bocciatura di Adriano Celentano e della sua “Il ragazzo della via Gluck”, un brano che è la storia del cantante milanese e anche un po’ la storia del nostro Paese.

L’indicazione del decennio degli anni Sessanta come prototipo e guida del Festival di Sanremo non deve sembrare limitativa. La manifestazione, com’è giusto, s’è evoluta, s’è trasformata. Ha portato sul palco del Salone delle feste del Casinò prima e del Teatro Ariston poi altri grandi della canzone e del costume nazionale (televisivo e no): Vasco Rossi, Rino Gaetano, Zucchero, la Pausini, Ruggeri, Vecchioni… Ma è solo se si fa riferimento agli anni Sessanta che si enuclea il fenomeno della “grande evasione” e della festa canzonettistica che è parte intrinseca del paese Italia. Il Festival di Pippo Baudo – personaggio certamente degno di signoreggiare nell’Olimpo sanremese – è altra cosa dalle edizioni ancora un po’ ingenue di quell’epoca. Perché è in seguito che il Festival cambia la sua matrice fino a divenire fiera pubblicitario-televisiva nella quale, spesso ma non sempre, trovano posto le canzoni. E lo stesso Pippo, in una specie di delirio flaubertiano, arriverà a dire: “Le Festival c’est moi”. Con tutte le conseguenze del caso.

Il presentatore di oggi, Gianni Morandi, ha un suo adeguato pedigrée sanremese, che però non è quello degli anni Sessanta, quando Gianni era il fidanzatino cantante di una che “si faceva mandare dalla mamma a prendere il latte”. Negli anni centrali dei Sessanta, Gianni si teneva lontano (o lo tenevano lontano i suoi discografici) da Sanremo. Non altrettanto invece, come s’è visto, faceva Adriano Celentano: secondo, bocciato, terzo, vincitore, classificato…

Qualcuno ha detto che nel 1967, quando Luigi Tenco si tirò una pistolettata alla testa, chiuso in una camera dell’Hotel Savoy, non solo finiva il Festival, ma finiva anche un momento particolare dell’Italia, che si avviava pericolosamente dagli anni della ricostruzione e del boom a quelli di piombo: Luigi Tenco lasciò un biglietto: “Io ho voluto bene al pubblico e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda in finale ‘Io, tu e le rose’ e una commissione che seleziona ‘La Rivoluzione’. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao Luigi”.

Non si chiarì niente. Il Festival non si fermò, allora. Da quarantacinque anni siamo lì a ballare il nostro ultimo valzer nel salone del Titanic che si sta inabissando. O, più italianamente, schierati sulla Costa Concordia che semiaffonda.

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