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Libri

L’EPOPEA DEGLI OSSOLA

FRANCESCO BORRI - 07/10/2016

ossolaÈ uscito il libro, edito da Macchione, di Franco Giannantoni, Franco Ossola junior e Flavio Vanetti intitolato “Ossola – Franco, Luigi, Aldo – Le storie, le fotografie i documenti di tre fratelli che hanno onorato lo sport”, prefazione di Tony Damascelli. È un bellissimo, dovuto e atteso omaggio a queste glorie della città di Varese. Per cortese concessione dell’editore, ne pubblichiamo qualche brano.

Ecco il primo, di Franchino Ossola in ricordo di Franco:

“Ciao, Varese”

Si sforza, Franco, fino all’ultimo di tenere sott’occhio il tabellone con la scritta Varese e solo

quando le poche lettere sbiadite si fondono in un’unica macchia bianca e indistinta, risollevato il finestrino, decide di non più pensarci. È mattina presto. Nello scompartimento non c’è nessuno. Ha scelto di arrivare a Torino con largo anticipo per fare le cose per bene e con calma. Che la via Alfieri, sede del Torino, fosse poi poco distante dalla stazione di Porta Nuova, come gli era stato detto, tanto meglio. Sapere di poter contare su un margine di tempo lo rassicura. Nessun intoppo in questa giornata. Avrebbe potuto leggere o, meglio, dare una scorsa ai libri di scuola lasciati da poco, ma che altrettanto presto, stando alle promesse fatte, avrebbero dovuto ridiventare il pane quotidiano insieme con allenamenti e partite, naturalmente.

Aperta la valigia, pesca nel mucchio. Ne viene fuori la grammatica greca, la sua persecuzione. Meglio ripiegare sugli autori latini. Più libri che vestiario nella valigia nuova di zecca, appositamente acquistata per celebrare l’avvenimento. Difficile concentrarsi. I pensieri corrono e si accavallano. Il libro resta chiuso, l’immaginazione si apre, galoppa. Ad un tratto il treno ha un sobbalzo. Un altoparlante che gracchia annuncia: “Novara, stazione di Novara”. È già a metà strada e non ha letto due, che siano due, righe. Prova a riaprire il libro: pieghe all’angolo dei fogli, croci e sottolineature, commenti, ogni pagina è un campo di battaglia. Ma, evidentemente, sta scritto che di questo tempo per studiare non c’è da far tesoro. Quasi come un comico destino voglia fargli riprendere il filo interrotto del ricordo, da una pagina a centro libro scivola fuori un roseo ritaglio di giornale.

Con un volteggio leggero si adagia a terra, ammicca, lo invita a raccoglierlo. Lo riconosce al volo: è la breve cronaca della sua partita d’esordio, la sua prima vera partita: Legnano-Varese, dell’anno prima, finita uno a uno. Nino Oppio, l’articolista, spende buone parole su di lui:

C’è un nuovo elogio che va dritto dritto a quel ragazzo, 18 anni, che Janni ha pescato nelle riserve per farne un titolare. Si chiama Ossola e gioca alla mezza destra: la sua partita è stata un gioiello di ricami, di passaggi, di azioni impostate, sviluppate ed anche concluse con tiri saettanti. Una continuità e una sicurezza di gioco degne di un giocatore arrivato. È troppo presto ed è tropo poca cosa una sola gara a giudicare un atleta, ma Ossola è una bella promessa e le possibilità per andare lontano ed i mezzi ci sono.

«Eccomi qua, caro signor Oppio. Come vedi mi sto già muovendo. Non che Torino sia in capo al mondo, ma è certo lontano per come la intendiamo tu ed io!». Immaginare di andare a giocare con campioni affermati come Baldi, Neri, Petron, Gallea, per non dire di Olivieri, un campione del mondo… Intanto il treno sta arrivando. Quando il controllore quasi gli intima di esibire il biglietto, mostrandoglielo, a Franco viene spontaneo domandargli: «Scusate, ma voi per quale squadra di calcio tenete?».

La risposta è secca, perentoria: «Per la Juventus, che domanda, Come as fa a esse del Turin, che a guadagna mai niente!», borbotta l’uomo passando nello scompartimento successivo. Ecco Porta Nuova, ecco Torino.

Ciao, Varese.

Questo il secondo, di Franco Giannantoni su Luigi detto Cicci

I primi calci nel cortile di via Cimarosa

Cestista e calciatore. Due carriere racchiuse in vent’anni. Una vita intensa ricca di successi e di amarezze gestita sempre con grande equilibrio, premiata in entrambi i casi dall’ambito traguardo della serie “A”. Prima nel basket con la “Prealpi”, diretta erede della “Robur et Fides”, la squadra dell’Oratorio “San Vittore” di via San Francesco, culla di una disciplina che negli anni ’50 iniziava a diventare popolare, poi con il Varese Football Club, l’Associazione Calcio Roma e il Mantova. Nessuno, credo in Italia, possa vantare un tale primato che fa di Luigi Ossola, “Cicci”, classe 1938, varesino puro sangue, figlio di Angela Civelli e di Gino Ossola, orafi e gioiellieri, un atleta speciale.

Sullo sfondo di questa esistenza sportiva che ha espresso un campione amato e applaudito come un simbolo di estrema correttezza e di forte legame con i suoi compagni, al punto da raccoglierli tutti nel significato a lui caro di “famiglia” (fratelli di gioco più che di mestiere), c’è il modello di riferimento nel fratello Franco, l’ala sinistra del grande Torino, morto a Superga a 28 anni con tutta la squadra in quel tardo pomeriggio nebbioso del 4 maggio 1949. L’immagine di Franco accompagna ogni richiamo, anche il più marginale, della sua vita.

Luigi Ossola parla di sé stesso, con la voce fievole, spesso impercettibile, con silenzi intervallati da squarci di viva memoria, ma il confronto è immancabilmente con Franco, a cui, malgrado la giovanissima età (aveva undici anni quando é scomparso) si richiama per svelare che i primi calci al pallone, quello di cuoio ruvido con le stringhe e la valvola per gonfiarlo, li aveva dati nel cortile di via Cimarosa, nel retro del negozio dei suoi genitori, sotto il suo sguardo divertito e partecipe.

La passione per il calcio era nata durante quei giochi pomeridiani al ritorno da scuola «Palleggiavo con Franco per qualche minuto – dice – e per me era un assoluto divertimento. Non avrei voluto mai smettere. La prima cosa che imparai fu lo “stop”, la palla agganciata al volo e fermata a terra con un movimento rapido e sicuro. Poi Franco partiva con la sua valigetta e la maglia granata e da quel momento avvertivo la sua mancanza. Telefonava ogni giorno da Torino e, alla mamma, alla fine della conversazione, chiedeva di orientare la cornetta verso il campanile del Bernascone che era a due passi da noi per ascoltare a mezzogiorno i suoi rintocchi. Era il modo per sentirsi vicino, per avvertire il cuore di Varese, la città che lo aveva lanciato e apprezzato. Quando Franco poi voleva avere notizie su qualche giocatore o su qualche squadra della zona mi chiamava al telefono e io provvedevo a informarlo. Era un compito che svolgevo con grande cura per evitare di fare degli errori fatali».

Luigi Ossola frequentava a quei tempi con me le scuole elementari “Felicita Morandi” di fronte alle carceri. Fino alle superiori non ci saremmo più lasciati, percorrendo insieme l’intero ciclo scolastico.

Infine il terzo, di Flavio Vanetti dedicato a Aldo:

Il campione che ha stregato i canestri diventando, oltre che un vincitore seriale, un’icona dell’organizzazione del gioco e dell’intelligenza applicata al basket, aveva cominciato con il calcio.

«All’oratorio – ricorda Aldo Ossola – si giocava sia al pallone sia a pallacanestro, c’erano entrambi i campi. Perdevi a calcio e sfidavi i vincitori a basket… Ma quando contrassi il tifo, la mia statura aumentò di un bel po’. Mi dissero: forse è meglio che ti dedichi al basket. In realtà a me piacevano entrambe le discipline, anchese pallacanestro mi attirava di più. D’altra parte il calcio era già il calcio…».

Un ricordo ingombrante

Il calcio era già il calcio, però il futuro Von Karajan del parquet, un soprannome a volte vissuto come scomodo ma perfetto per disegnare una leadership di qualità, non ebbe dubbi nella scelta. Forse in qualche modo c’entrò il ricordo del fratello perito a Superga? La risposta è no. Ma questo non significa che sia stato agevole aggirarsi attorno alla figura del fratellastro (che Aldo, detto per inciso, mai chiama in questo modo). E in fondo pure a quella di Luigi, anzi Cicci, il fratello a lui biologicamente più vicino. «Sì, ho avuto un bel po’ di difficoltà. Anche quando giocavo a basket, la gente si ricordava prima di tutto del Cicci cestista, che era pure bravo: era un regista, proprio come sarei stato io. Aveva meno tiro di me, ma compensava con un’ottima visione del gioco e in ogni caso entrò prima di me negli interessi della Ignis, dal momento che partecipò a un torneo del quale conservo una foto di lui assieme a Zorzi, Romanutti e a un americano di colore giunto in prestito da Pesaro.

Il discorso relativo alla tragedia di Superga, invece, si lega molto anche alla scomparsa di papà. È una vicenda che precede di poco il 4 maggio 1949, il giorno dello schianto dell’aereo del Grande Torino. Mio padre morì infatti il 13 febbraio vicino a Lainate, sull’autostrada tra Varese e Milano. C’era anche mia madre, che si salvò dopo essere rimasta in coma per una settimana. I miei genitori avevano avuto un periodo piuttosto difficile ed erano andati dalla sorella di mamma per dimostrare che erano riusciti a sistemare i conti. Papà, consolazione relativa, se non altro fu risparmiato dal dolore della disgrazia di Franco. Per mia madre fu l’inizio di un momento tremendo, il primo di due colpi tremendi.

Da una vicenda come questa puoi uscire solo se hai una forza di fondo straordinaria ed è proprio quello che lei ha saputo spendere. Ciò non toglie, d’altra parte, che la ferita nel suo animo sia stata profonda e, probabilmente, mai rimarginata. L’ombra della doppia tragedia ha continuato a seguirla per tutta la vita con un senso di nostalgia e quanto è capitato a Franco fu una mazzata brutale capitata mentre si era appena ripresa dall’incidente: aveva ancora le bende e le fasce… Io, invece, non ricordo nulla: la mia mente ha voluto cancellare. Forse ha inciso anche la tenera età, dato che la ricorrenza dei 4 anni cadeva il 13 marzo, giusto a metà tra quei due momenti tristi.

Tornando a mia madre, una volta attenuato in qualche modo il dolore ha vissuto in modo profondo il ricordo del doppio lutto: ogni domenica andavamo al cimitero da papà e a Giubiano, su sua espressa volontà, fu allestita una tomba dedicata a Franco, con tanto di foto. È rimasta fino a qualche anno fa, poi la foto di mio fratello è stata donata al museo del Torino”.

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