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Attualità

STORIA E POESIA DEL RISORTO

EDOARDO ZIN - 14/04/2017

La “racola” (altrove detta “raganella”)

La “racola” (altrove detta “raganella”)

Senza neanche dover sollecitare la memoria, il ricordo dei riti della Settimana santa della mia infanzia è più che mai vivo, anche se parlo di anni ormai remoti.

Sulle arie mutevoli della primavera, arrivava la Domenica delle Palme. Si snodava la processione sulla strada principale della contrada, ancora sgombra da autoveicoli: i più piccini davanti con le suore, poi le fanciulle col velo bianco in testa, seguivano i ragazzi, i chierichetti, l’arciprete con in testa il tricorno e il fiocco rosso, e poi la marea di donne e infine gli uomini con il cappello in mano. Davanti si cantava, in coda un po’ meno.

Nelle lunghe divagazioni della memoria, folta di immagini solari, ma anche di sconcerto di nubi, attendevamo il momento di giungere al portale della chiesa chiusa, quando il celebrante con l’asta della croce dava tre forti colpi alla porta che subito dopo si apriva e i cantori intonavano: ”Ingrediente Domino…”. Gesù entrava in Gerusalemme come un re potente e ricco e la musica di Toni, l’organista, l’accoglieva come un trionfatore.

Oggi quel concerto di voci, di canti si è smorzato nel mio cuore: ho un Dio che mi è Padre, che ha inviato Suo figlio nella storia e nella città a dorso di un puledro, non un re che signoreggia e dichiararmi Suo figlio è una grande irruzione nel cuore. Anche oggi sono tornato a casa da Messa con il ramo d’ulivo benedetto: non l’ho appeso in camera vicino all’ acquasantiera per tenere lontano le disgrazie, l’ho deposto in un vaso di coccio sul mio scrittoio per ricordarmi le disgrazie d’oggi che divampano ogni giorno proprio nella terra degli olivi – il Mediterraneo – dove esplodono bombe nelle chiese, si uccidono bimbi innocenti “che invocano la madre, le donne vengono violentate, gli uomini umiliati, torturati, assassinati”, come si sarà sentito dire venerdì durante la Via Crucis al Colosseo: lì la vita, il pane, gli affetti, l’amicizia, la libera scelta non esistono e creano  incredibili turbamenti.

Se indago con la memoria ai tempi della mia fanciullezza, il lunedì, martedì, mercoledì seguenti, la mamma faceva le grandi pulizie, mente io andavo ai mattutini. In chiesa i preti si alternavano nel cantare in latino tredici salmi e al termine di ogni salmodia il sacrestano spegneva una delle candele accese poste su un candelabro piramidale. Attendevamo col fiato sospeso che tutte fossero spente finché, su in alto, al vertice del candelabro, ne  sarebbe rimasta accesa una sola: quando un prete la portava dietro l’altare per spegnerla, noi davamo inizio a un frastuono incredibile con la “ranela” o “racola”, un attrezzo di legno formato da un manico, con in testa una ruota dentata. Sulla ruota si appoggiava un’appendice di legno, una parte della quale faceva rumore ogni volta che, girando, incontrava un dente della ruota. I preti davano inizio al baccano battendo il grosso libro dei salmi sul banco, noi li seguivamo, facendo scoppiare un fragoroso, assordante fracasso con le “racole”.

L’arciprete ci spiegava che quel baccano significava il frastuono provocato dai “perfidi giudei” durante la cattura di Gesù. (Ma, più tardi, all’esame di antropologia scoprii che si trattava di un’usanza antica inserita nella liturgia: col rumore si credeva di allontanare gli spiriti maligni!).

Era un rito paganeggiante, spettacolare, quasi un’attrazione, uno spettacolo dovuto alla cultura religiosa dominante d’allora che aveva corroso perfino la liturgia rendendola disumana e fuori dall’esperienza di ogni giorno.

Tra quel tempo e quello d’oggi c’è stata per buona sorte una rottura: oggi quando recito un versetto di un salmo lodo, ringrazio, benedico il Signore senza regressioni nel passato e senza finzioni. Anche la liturgia odierna è più cristiana e, quindi, più umana, cioè conforme all’umanità di Gesù, capace di essere a servizio degli uomini. E quando recito un versetto dei salmi, mi sento unito a Gesù e agli ebrei, miei fratelli maggiori.

 Non ho ricordi precisi della Messa del giovedì santo, ma non fatico al contrario rimembrare il silenzio di quel giorno. La vita di quegli anni era regolata dal suono delle campane: da quel giorno fino al “Gloria” della mattina del sabato santo le campane venivano “legate”. Dopo la messa si riponeva il Santissimo nel sepolcro, tutto addobbato di lumi e di fiori. Nel pomeriggio, spesso greve di nuvole cineree, mia madre mi portava a fare il giro dei sepolcri della città ed io restavo stupito dal tripudio di fiori e dai lumi che spuntavano in mezzo ai germogli di grano inumiditi già da tempo.

Il venerdì santo della mia infanzia è legato al ricordo della “messa secca” e alla lavanda degli altari: rivedo preti, sacrestani, suore che tolgono tovaglie, candelabri per pulire mense, balaustre, gradini accompagnando il tutto con un preciso cerimoniale. Alle tre del pomeriggio, quando Cristo spirava, suonavano le sirene delle fabbriche e gli operai per un minuto smettevano di lavorare. In campagna si potava la vite che cresceva appoggiata alla casa. Era tutta la società programmata sul sacro. C’è voluto un Concilio per rendere visibile Dio in una società senza Dio. Egli non impone la sua presenza, ma l’affida alla testimonianza dei suoi seguaci.

Oggi, la Messa del giovedì santo è semplice, bella, non mostra segni magici o arcaici, ma fa vivere la stessa cena che Gesù istituì prima della sua passione e morte: si ascolta la Parola, sulla tavola addobbata si spezza il pane come fece Lui, alla comunione si tende le mani aperte non per afferrarLo, ma per accoglierLo come un dono, come fa un bambino che è totalmente indifeso e incapace di nuocere. Lui si affida alla testimonianza di chi partecipa alla mensa comune perché possa camminare per le strade del mondo con le gambe degli uomini.

Da bambino, mi sembrava che più uno fosse praticante, più fosse cristiano, ora capisco che la fede si alimenta con il Pane spezzato tra fratelli: più sono vicino agli altri, più sono unito a Lui. Il segno più eloquente è la lavanda dei piedi ai poveri, agli anziani, a coloro che sono feriti nel corpo e nello spirito. Tutti costoro vengono associati, la sera del venerdì sera, alla stessa strada della croce che Cristo compì per giungere al sepolcro del Golgota, segno del seme che viene sepolto nella terra, marcisce e muta la putrefazione in tenerezza d’erba.

Finalmente, arrivava il sabato. Verso mezzogiorno, le campane annunciavano che Cristo era risorto. Tutti correvano a bagnarsi gli occhi con l’acqua fatta nuova dal Risorto. In Chiesa, uno sparuto nugolo di fedeli assisteva alla benedizione del fuoco, dell’acqua, del cero pasquale.

Terra, Fuoco, Aria, Acqua – gli elementi essenziali per la vita – mi ricordavano che il Risorto fa nuove tutte le cose. Lo notavo dalla fioritura degli alberi da frutto: il bianco dei ciliegi, il rosa dei peschi e il bianco-rosso dei meli, dall’aria addolcita e profumata, dai fiori germinati dal grembo della terra invernale, dal fuoco sprigionato da una scintilla fatta balenare da una pietra.

Solo ora, carico di anni, comprendo che con la resurrezione di Cristo è tutto il cosmo che viene rinnovato, una promessa si schiude come il primo timido incanto dell’amore, la terra si scrolla di dosso le ultime foglie secche che vengono bruciate, il duro suolo si screpola: vorrei che il Risorto scrollasse la polvere dei miei vestiti e l’abitudine dal mio cuore, che bruciasse nel fuoco del suo amore le mie colpe, che dal mio animo indurito nascesse la bontà e da un suo varco uscisse luce per una vita nuova. Anne-Marie Pellettier, che per la Via Crucis di quest’anno al Colosseo ha dettato le meditazioni, ha scritto. “Venga la dolcezza di Dio a visitare il nostro inferno: è l’unico modo per liberarci dal male.” Faccio mio il pensiero dell’amica biblista per augurare agli amici che mi leggono: “Buona Pasqua”.

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