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Sport

ATLETA DI PACE

FELICE MAGNANI - 09/06/2017

ciresaQuarantotto anni dedicati alla corsa, sempre in pista anche se il tempo corre via in fretta. Vittorio Ciresa, 61 anni, non molla, non solo, è orgoglioso e soddisfatto di essere stato chiamato a scortare la fiaccola della pace dalle rive del Lago Maggiore, fin sulla vetta del Sasso del Ferro di Laveno. Avere tra le mani la fiaccola che ha fatto il giro del mondo ed esserne stato testimone insieme a personaggi come madre Teresa di Calcutta, Carl Lewis, Mohammed Alì, Nelson Mandela, il Dalai Lama, Gorbaciov, Giovanni Paolo II e altri molto famosi lo rende orgoglioso e fiero. Lui che ha fatto dello sport una scelta di vita più etica che agonistica, nonostante i trecento allori conseguiti nelle sue performance podistiche, si compiace di essere ancora sulla breccia non solo nell’agonismo, ma soprattutto nella promozione e nella divulgazione dello sport, nella sua capacità di creare pace e armonia, nel saper regalare l’elisir dell’eterna giovinezza a chi è alla ricerca di una rinnovata integrità fisica e morale. Lo incontro durante una pausa dai suoi mille impegni.

Vittorio, sei stato chiamato a rappresentare il Lago Maggiore nella staffetta più lunga del mondo, insieme a Rambaldini e a Ciech, com’è nata questa chiamata?

Diciamo che è stato tutto casuale, lungi da me il pensare che un giorno sarei stato chiamato ad accompagnare la fiaccola della pace sulle rive del Lago Maggiore, il lago che più di ogni altro porto nel cuore. In alcuni casi quello che non ti aspetti succede e ti rende felice, perché tenere tra le mani la fiaccola che è stata portata da personaggi illustri come Madre Teresa di Calcutta, il Dalai Lama, Nelson Mandela, Giovanni Paolo II e tanti altri famosi nel mondo è stato un privilegio che non mi sarei mai aspettato. Condividere questo momento con Alessandro e con Christian è stato bellissimo, una conferma che lo sport ha una straordinaria funzione sociale, una funzione che va molto oltre l’agonismo e i risultati. La Peace Run, la staffetta più lunga del mondo è da trent’anni che attraversa i continenti e ha già percorso 5000 chilometri. In questa circostanza è arrivata dalla Cecoslovacchia, è passata attraverso la Germania, è entrata in Svizzera e ha fatto tappa qui a Laveno, sul lago Maggiore. Si tratta di una manifestazione di livello internazionale, che promuove la pace, l’armonia e l’amicizia tra i popoli, puntando decisamente sullo sport come strumento di fratellanza umana. È stata fondata nel 1987 dal filosofo di pace, Sri Chinmoy e da allora ha coinvolto più di dieci milioni di persone e oltre centocinquanta paesi al mondo. Averne fatto parte insieme a due grandi campioni dello sport, come Alessandro Rambaldini e Christian Ciech è stata una grandissima soddisfazione.

Vittorio, il tempo passa, ma non ti fermi, cosa c’è che muove questa tua voglia di correre?

Negli ultimi mesi ho partecipato a quattro circuiti. Nel Novarese sono arrivato terzo. Ho partecipato al campionato lombardo, naturalmente nella mia categoria, dove ho vinto una prova, sono arrivato una volta secondo e una volta terzo. Ho partecipato all’euro running, una corsa in montagna al Campo dei Fiori, dove ho vinto la prima prova, la terza prova e ho vinto successivamente il campionato provinciale. Ho vinto anche il Cross internazionale di Prato Sesia e quello della Rocca di Angera. Quest’anno ho vinto sette gare e sono molto soddisfatto. Mi sento ancora competitivo nonostante l’età, lo conferma il fatto che mi sono classificato trentatreesimo, su quattordici mila iscritti, alla Maratona di Milano.

Quando l’hai vinta, qualche anno fa…

Quarantacinque anni fa su queste strade volavo, vincevo la mia prima gara importante, quella che faceva gola un po’ a tutti i giovani che avevano voglia di futuro nel mondo della maratona. A distanza di tempo ho rivissuto quei bellissimi momenti, ma ero troppo preso dalla gara per lasciarmi andare. Ogni gara è una sfida con se stessi, con il tempo e con gli atleti che vogliono tagliare per primi il traguardo. Una giusta dose di agonismo è quella che mantiene alto l’entusiasmo e la voglia di esserci, dà tono alle cose che fai e le rende ancora importanti. Dopo quarantotto anni di corse sono ancora qui pieno di energia, a mettermi alla prova, dunque lo spirito non è cambiato, è rimasto quello di sempre. Mi sento un guerriero, un combattente, non ho mai pensato di lasciarmi andare, di perdere il gusto e la bellezza di una corsa. Rientro da un infortunio e sto già pensando al campionato italiano: sono fatto così.

Bisogna dire che ti sai gestire molto bene…

Io sono un atleta nato, quindi so come si deve vivere per mantenersi in forma, per non cadere nelle trappole del consumismo. Per un atleta il fisico e la mente vanno di pari passo. Qualcuno afferma che rischio troppo, in realtà io faccio solo quello che mi sento di fare, quello che mi dà felicità, gioia di vivere. Correre è l’espressione del mio modo di essere e di sentire, senza correre non potrei stare. Mi alleno sempre, cerco di mantenere tonico il mio fisico e soprattutto ho ancora mille motivazioni per andare nei boschi della Valcuvia a definire la mia preparazione. Per me lo sport è una straordinaria mescolanza di forza fisica e di benessere mentale. Quando corro sto bene con me stesso e con il mondo, la natura mi dà una mano e io la ringrazio.

Come vedi il mondo dello sport, oggi?

A livello provinciale mi sembra un po’ in ribasso, mi sembra poco valorizzato il senso dello sport, lo spirito dello sport, quello che lo sport trasmette. Il consumismo ha consumato un po’ tutto, facendo credere che tutto si potesse vendere o comprare e che con i soldi si potessero risolvere i problemi, senza tener conto che alla base c’è l’uomo con la sua voglia di vivere, di divertirsi, di provare emozioni, di entusiasmarsi e di stupirsi. Anche lo sport in generale si è lasciato condizionare dalle tecnologie, da varie forme di perfezionismo e di pubblicità, si coltivano meno di un tempo i sentimenti, tutto viaggia sull’onda di un’esasperazione che cancella le emozioni, che fa sembrare difficile anche quello che per sua natura è semplice. Quando ho iniziato, l’avversario era un amico con cui ti confrontavi, era quello della porta accanto con cui dovevi misurarti, non era il nemico da abbattere e le uniche forze che mettevi in campo erano quelle che madre natura ti aveva regalato. Oggi è tutto più complicato, si cerca la vittoria a tutti i costi e per un risultato si è anche pronti a vendere l’anima al diavolo. Lo sport, un po’ come tutto, deve ritrovare il suo spirito, la sua voce, deve ricordarsi che è gioco, divertimento, purezza. Credo che occorra promuovere lo spirito sportivo in famiglia e a scuola, soprattutto a scuola, dove l’educazione fisica in molti casi non ha quel ruolo che le compete. La cultura sportiva è fondamentale per evitare che le persone perdano strada facendo l’autostima, la voglia di esserci, di fare, di competere, di affrontare la vita con entusiasmo, a qualsiasi età.

Vittorio, tu hai avuto molti avversari importanti, ma anche molti amici. Tra questi mi hai parlato spesso del dottor Enrico Arcelli, vuoi ricordarlo?

Il dottor Arcelli è una persona che non dimenticherò mai, è stato l’anima della mia corsa. Quando avevo quattordici/quindici anni mi ha seguito, mi ha fatto scoprire i segreti dello sport, la sua bellezza, il modo di viverlo, è stato un <guru> straordinario, era uno che sperimentava i valori prima su se stesso e poi li insegnava con quella affabilità tipica di un fratello maggiore. Era dotato di una strategia mentale non indifferente, era uno studioso dei temi e dei problemi della scienza sportiva, uno che ha viaggiato molto e che durante i suoi viaggi apprendeva le tecniche più avanzate. Era uno stratega nel campo dei metodi di allenamento, lui e Rosa hanno inventato il test Conconi, lo dimostra il fatto che i migliori test venivano effettuati o a Brescia o a Varese. Credo di non esagerare se dico che il dottor Arcelli è stato l’anima della maratona varesina. Ai tempi era coadiuvato da Massimo Begnis. Noi della Belloli abbiamo avuto quasi tutti una buona carriera, proprio perché abbiamo avuto alle spalle delle persone molto competenti, come il bravissimo dottor Enrico Arcelli. Era un grande che sapeva stare con i piccoli, non ti faceva mai sentire a disagio. Pur essendo un luminare della scienza e della metodologia, della bioritmica, della biomeccanica e altro, un conferenziere nato, nel momento in cui si sedeva di fronte, lo percepivi non come il luminare, ma come un fratello. Era una persona speciale anche per questo.

Che ricordi hai degli amici?

Ricordo tutti con molto affetto, in particolare Mauro Traversi. Abbiamo vissuto alcuni anni insieme lui juniores, io allievo nella stessa squadra, abbiamo partecipato ai campionati italiani insieme, ero un po’ la sua bestia nera, lui era spesso secondo, c’era una sana rivalità, ma alla fine eravamo sempre amici, la corsa era solo un momento importante della nostra vita. Il suo destino drammatico, la sua morte prematura ha interrotto le nostre sfide, ma non l’ho mai dimenticato. Il Trofeo Mauro Traversi alla memoria lo abbiamo voluto per non dimenticare un atleta e un amico davvero formidabili.

Che cosa ti è mancato per raggiungere i massimi traguardi?

Credo il coraggio di fare l’atleta di professione. Per ben due volte si è creata l’opportunità per il salto qualitativo, la prima volta quando sono stato chiamato alla leva militare, al Centro Sportivo della Cecchignola a Roma. Quando si è giovani non si è abbastanza maturi per valutare bene le situazioni che si presentano, per dare un taglio più definitivo alla vocazione che porti dentro. Sono andato avanti da solo, ho fatto un po’ di testa mia, ho dato più importanza alla libertà personale che non a un protocollo prolungato, a regole troppo restrittive. Ero il tipo che dava retta all’allenatore, ma che si ritagliava l’interpretazione della gara. Al campionato italiano juniores mi sono presentato dopo aver vinto una gara di corsa in montagna di diciassette chilometri, quindi mi sono classificato quarto. Un errore? Forse, ma non ho saputo resistere. Non ho mai corso al risparmio, non sono mai stato un calcolatore, ho sempre lasciato spazio all’ispirazione, alla voglia di esserci, quindi avrei fatto molta fatica a sottostare a programmazioni o a protocolli impositivi. Se dovessi tornare indietro darei forse più importanza all’alimentazione, alla preparazione tecnica, all’aspetto scientifico del problema, compatibilmente però con il mio carattere.

Hai sempre nel cuore la Laveno-Monte Rosa no stop?

La Laveno- Monte Rosa mi ha segnato profondamente, è stata l’impresa della mia vita, la maratona che ha legittimato la mia personalità umana, morale e sportiva. Il mio legame con il monte Rosa è rimasto a distanza di anni e quando posso lo vado a trovare, ritorno su quella vetta che mi ha dato enormi soddisfazioni.

Cos’è per te lo sport?

È una grande opportunità di benessere fisico e mentale che viene riservata a tutti indistintamente. Sono in molti a promuoverlo, ma purtroppo sono ancora troppo pochi coloro che ne fruiscono. Può essere agonistico, ma anche solo amatoriale, è per chi ama il movimento, per chi lo associa alla bellezza della natura, alla voglia di scaricare energie negative, ce n’è per tutti i gusti. Alla base c’è sicuramente la voglia di star bene con se stessi e con il mondo, di migliorare la propria condizione fisica e mentale. Con lo sport si invecchia meglio, si hanno meno problemi e soprattutto si evita di scaricarli sulle persone che ci stanno vicino. Certo non è tutto oro quello che luccica. I problemi esistono anche nello sport, soprattutto quando qualcuno vuole vincere a tutti i costi barando, facendo ricorso al doping. Il doping è una piaga da estirpare, è necessario educare i giovani alla legalità, al rispetto delle regole. Ci sono circostanze in cui mi arrabbio sul serio, soprattutto quando vedo genitori che si sostituiscono agli allenatori e che trattano i figli come se fossero una proprietà privata. Ai miei tempi, quando correvo, mio padre non si è mai permesso di sgridarmi o di intromettersi, neppure quando i risultati erano inferiori alle attese. Le scelte che ho fatto, compresi gli errori, le ho sempre fatte io, non sono mai stato influenzato da nessuno.

Ti sei diviso tra corse in montagna, maratonine e maratone. Se dovessi fare una scelta di campo precisa, quale di queste tre specialità sceglieresti?

La gara che prediligo è quella dei tremila metri. Sono nato come atleta stradista, ma dopo essermi sottoposto a test specifici, è risultato che la mia vocazione era la pista, anche se mi è stato detto che sarei potuto diventare un buon maratoneta. Andavo fortissimo sulle gare brevi, lo dimostrano anche i tempi che facevo. Ad un certo punto ho scoperto anche la passione per la corsa in montagna, alla quale mi sono dedicato con grande entusiasmo. Nella zona in cui abito non si può non amare la corsa in montagna, le Prealpi hanno un fascino tutto particolare e poi c’è il monte Rosa con le sue cime innevate che fa il resto.

Vittorio, per te lo sport è sempre stato una fucina di valori, lo hai vissuto soprattutto nella sua dimensione etica, come lo vedi oggi?

In generale c’è una crisi di valori e lo sport ne fa parte. Ci sono forme di egoismo piuttosto accentuate, anche nelle nostre comunità, ma bisogna dire che c’è ancora del buono e chi ha energia e volontà può raccogliere ancora molto. Ci sono associazioni, gruppi, enti che lavorano moltissimo, soprattutto nel campo del volontariato, per fare in modo che non si perdano per strada quei valori ai quali ci hanno abituato i nostri vecchi. Come presidente della 3V, insieme ai miei amici, cerco di stimolare l’attenzione sul bisogno sociale e in alcuni casi lo sport diventa un veicolo importante di solidarietà. Credo che non bisogna mai demonizzare tutto, nel tutto c’è sempre una parte positiva che va letta, organizzata e messa in pratica. Nel mio piccolo cerco di fare il possibile.

E con le scuole come va?

Con le scuole primarie ci combatto, il problema è che il condizionamento sociale si fa sentire in modo dirompente, spesso i problemi non sono solo dei ragazzi, ma di chi ha il dovere di educarli. Incontri un materiale umano che è già fortemente intriso di idee sbagliate, di modi di essere e di fare che vanno contro le normali regole dell’educazione civica. Il problema è che non puoi neppure insistere troppo, perché altrimenti ti trovi contro chi dovrebbe stare dalla tua parte e collaborare con te. Spesso i ragazzini sono prigionieri dei giochini tecnologici, della televisione e del computer, non vivono più all’aria aperta come facevamo noi e soprattutto non accettano i rimproveri, si rifugiano nella protezione incondizionata dei genitori. Secondo me la scuola deve tornare ad essere della scuola, deve avere una propria autonomia, non deve dipendere dalle bizze di qualche genitore. Ai miei tempi si andava a scuola a piedi o in bicicletta, anche quei genitori che avevano la macchina abituavano i propri figli a fare movimento, si percorrevano chilometri a piedi senza mugugnare, ognuno con la propria borsa. Era anche questo un modo per diventare grandi e indipendenti. Oggi i ragazzini arrivano a scuola accompagnati in macchina, non portano più la cartella, sono serviti di tutto punto e quindi credono che gli altri siano a loro completa disposizione. Sappiamo tutti che nella vita non è così, la lotta per la sopravvivenza è fondamentale, quindi bisogna darsi da fare per aiutare il processo dell’autonomia.

E negli oratori?

Ho collaborato parecchio con gli oratori nei periodi estivi e devo dire che mi sono trovato sempre abbastanza bene. Quest’anno presterò il mio servizio in un oratorio molto attrezzato per l’educazione sportiva, quindi mi reputo oltremodo fortunato. Per i ragazzini dei Grest il movimento è fondamentale, hanno bisogno di giocare, di muoversi, di correre, saltare, nuotare, insomma il benessere fisico vuole la sua parte, anche là dove l’educazione morale dovrebbe avere un ruolo primario. È un’esperienza molto bella e interessante, quindi mi predispongo a viverla con la solita passione e con il solito entusiasmo.

Dunque sei un atleta maturo, felice?

Lo spirito è quello di sempre, l’entusiasmo e la passione idem. Riesco ancora a primeggiare nella mia categoria grazie al mio modo garibaldino di interpretare lo sport, mi sento bene, cosa potrei chiedere di più? Sì, mi sento un uomo/atleta realizzato. L’importante è saper essere in armonia con se stessi.

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