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Apologie Paradossali

CHECK POINT CHARLIE

COSTANTE PORTATADINO - 14/07/2017

charlie(S) Oggi raccogli la sfida di parlare del caso Charlie Gard, dopo che ti sei sottratto a questo compito la settimana scorsa. Per di più il tuo pezzo uscirà sabato, quando già giovedì  il giudice inglese potrebbe aver deciso in modo definitivo.

(C) La scorsa settimana ho avuto un impedimento reale, ma non mi dispiace che  una riflessione possa arrivare anche a fatto compiuto. Non voglio entrare a far parte di una ‘tifoseria’, nemmeno di quella pro vita.  Questa storia è così ricca di aspetti paradossali (nel senso etimologico: che vanno contro l’opinione dominante) che merita una riflessione accurata e certo nemmeno definitiva. Comincio dall’enunciare alcuni di questi paradossi, poi lascerò che voi,  Sebastiano Conformi e Onirio Desti, esprimiate i vostri giudizi.

Il primo paradosso è che non si è iniziato a discutere del caso se non all’ultimo momento, quando già in Aprile,  “Tempi”, dal suo modesto punto di vista aveva lanciato un grido d’allarme, evidenziando la totale sordità dei mezzi di comunicazione italiani. Sembra la ripetizione della storiella che c’è la notizia se l’uomo morde il cane, non viceversa. Che notizia è che i genitori di un bambino non vogliono che muoia? Ci sarebbero migliaia di casi ogni, giorno, anzi ogni ora  e nessuno se ne cura. Come mai invece, da un certo momento in poi è  accaduto  il contrario? Forse la risposta sta in una dichiarazione dell’ospedale che  il magistrato ha letto in udienza, in cui si afferma che è terribilmente ingiusto verso Charlie continuare il trattamento settimana dopo settimana sapendo che è contro il suo benessere.  Il concetto di ‘benessere’ vira radicalmente da significare ‘vivere bene’ a ‘morire bene’, tenendo ben presente che il ‘trattamento’ che tiene in vita Charlie non è un particolare medicinale, ma semplicemente la somministrazione di acqua, cibo e aria.

(S) Infatti io trovo necessario che si discuta se il prolungamento di una sofferenza, quando non ci sia speranza di guarigione, non sia davvero irragionevole. Penso che la ‘malattia’ di Charlie non è una condizione transitoria, ma strutturale, non c’è cura possibile, quindi la sua sofferenza è inutile, è senza speranza. L’intervento del tribunale, quindi, non è moralmente diverso  rispetto a quando interviene ordinando cure che i genitori rifiutano, a causa di loro particolari convinzioni.  Va nella direzione opposta, ma in base allo stesso principio, l’interesse del minore.

(C) Quanto a questo vorrei rendervi noto il parere di un esperto. Domenico Coviello è il direttore del Laboratorio di Genetica Umana dell’Ospedale Galliera di Genova. Pur condividendo il parere di molti colleghi che hanno descritto come disperata la situazione di Charlie Gard, arriva però alla conclusione opposta: Charlie  Gard, stando alle conoscenze di cui disponiamo oggi, non si può guarire. E allora? Se non possono guarirlo, se la sua malattia è irreversibile – e questa pare essere l’unica certezza degli inglesi –, i medici si devono arrendere al loro compito che è quello di assistere il malato, fino alla fine. Non quello di accelerare l’esito finale e fatale della sua vita. I medici non sono demiurghi.
(O) Io invece parto dal non rassegnarmi, se non c’è una cura oggi potrebbe esserci domani. Decenni fa, anche il diabete era considerato una malattia incurabile, poi si scoprì l’insulina.  Vogliamo confondere la speranza con l’accanimento terapeutico? Chi è in grado di tracciare una linea di confine? Insisto nel dire che si deve tentare tutto. Se è vero, come afferma il quotidiano inglese Sun che il Papa farebbe diventare Charlie cittadino vaticano per consentirgli l’espatrio e quindi le cure all’Ospedale Bambin Gesù, una legge morale più alta sconfiggerebbe quella delle convenzioni umane.

(C) Chiedo consiglio ad un’altra persona che stimo, come medico, come scienziato e non da ultimo, come uomo.  Rispondendo alle domande di un giornalista de ‘Il Foglio’ Giancarlo Cesana afferma che una certa posizione che si presenta come a favore della vita a tutti i costi corre il rischio di diventare scientista, cioè di affidarsi a ogni mezzo tecnico pur di mantenere una vita che se ne sta andando, con tutto il suo carico di dolore e mistero.   E inoltre: dunque si pone il problema dell’accanimento terapeutico, che detto in altri termini è il problema del confine fra il coraggio e la temerarietà, fra l’affermazione della vita come bene supremo e l’accettazione della morte come condizione data.

Mi pare di poter condividere il giudizio di Cesana: che ci sia uno scontro di mentalità, diciamo pure di ideologie, una libertaria, che dice che l’individuo gode di ogni diritto su se stesso, anche di vita o di morte, un’altra scientista, che sostiene che tutto quello che si può fare  tecnicamente è moralmente lecito. Da questo scontro non deve nascere, come terza posizione, estrema tentazione dei cattolici, un sistema di regole astratte, razionalistiche, che non aiuterebbero né a vivere né ad accettare la morte come compimento della vita. Una volta che i credenti accettassero di sottomettere la loro esperienza di fede ad un tale sistema, darebbero credito ad una ricorrente tesi dell’ateismo militante: “La sola sofferenza di un bambino è dimostrazione sufficiente della non esistenza di Dio.”

(S) Non saremo certo noi a volere la sofferenza di un bambino, anche se l’aforisma che hai citato è palesemente retorico. L’ateo dovrebbe spiegare perché è accettabile la sofferenza di un vecchio o anche di un animale.  Non mi spaventa l’dea di tracciare un confine mediante una legge, pur sapendo che non  accontenterebbe tutti, che resterebbe sempre una zona grigia dove si vorrebbe che prevalessero i rapporti umani, i sentimenti, l’amore, la compassione…

(O) La speranza!

(C) La difficoltà di arrivare anche tra di noi ad una conclusione incontrovertibile sul piano razionale è evidente. Per aiutarci ad un giudizio, vi propongo l’esperienza di don Vincent Nagle, per anni cappellano in ospedale: Riceviamo la vita attraverso rapporti che portano significato alla nostra esistenza. Perciò quando parlo con le famiglie che devono decidere la cura per il loro amato, e cominciano a dire parole come “l’unica cosa importante è che non soffra” e perciò chiedono dosi di antidolorifici che lo renderebbero inconscio, io cerco di aiutarle a non cedere a questa angoscia che le assale, ma di pensare a cure che forse possono permettere contatto e comunicazione fra loro e il loro caro, anche se questo potrebbe aumentare il rischio di provare maggiore sofferenza.                                                                           Molte occasioni mi hanno fatto vedere che contatto e comunicazione sono capaci di rendere sia il paziente sia i suoi cari pieni di gratitudine in quelle circostanze drammatiche. La sofferenza è da combattere, ma non a qualunque costo. Come la vita per ognuno di noi: la prima cosa per vivere è avere qualcosa per cui vale la pena vivere. Così, dentro rapporti che ci danno la vita, si possono vivere anche queste circostanze, pur dolorose. Anche nel caso del piccolo Charlie, la sofferenza non è l’unico criterio ragionevole per come procedere con le cure. Favorire i rapporti che lo fanno vivere fa parte della cura della persona, anche la persona malata e sofferente che non guarirà. Più avanti: E non è vero che “l’unica cosa importante è che non soffra”. La cosa importante per l’esistenza di Charlie è che viva, e questo gli viene attraverso il rischio d’un rapporto d’amore, come per tutti noi, un rapporto che potrebbe farci soffrire, sbagliare, ma che ci fa anche vivere. Consegnare la vita del piccolo bambino al rapporto eterno col Padre Celeste passa attraverso questo rapporto coi genitori. Non vedo come potrebbe essere nell’interesse del bambino rimpiazzare questo rapporto.

(O) Ma se toccasse a te decidere, per te stesso o per un figlio o per la persona più cara?

(C) Vorrei trovarmi in una zona grigia, poter valutare la contingenza, in scienza e coscienza, senza essere costretto da una legge, da un protocollo scientifico, da una necessità economica, sperando di non soccombere alla tentazione della fuga, dalla sofferenza o dal mistero. Non sarà facile, temo, perciò vorrei sempre la compagnia delle persone che amo e che mi amano, sperando di trovare un pur precario equilibrio tra la sofferenza  accettata e la relazione coscientemente vissuta finché possibile.

(C) Costante   (O) Onirio Desti   (S) Sebastiano Conformi

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