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Attualità

EROE SOLDATO

MANIGLIO BOTTI - 22/09/2017

dalla-chiesaLo scorso 3 settembre ricorrevano trentacinque anni dalla morte del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Morte per mano mafiosa, a Palermo, dove Dalla Chiesa, che si era dimesso dall’Arma, era stato inviato in qualità di prefetto per combattere Cosa nostra, così come aveva fatto – qualche anno prima – con il terrorismo. Ma il generale – perché tutti continuarono a chiamarlo così – fu assassinato, insieme con la giovane e seconda moglie Emanuela Setti Carraro, poco dopo essere uscito in auto da Villa Whitaker, appunto sede della prefettura del capoluogo siciliano.

L’attentato ebbe luogo in via Isidoro Carini. Alla guida della vetturetta – una A112 – stava la moglie. Dalla Chiesa era seduto accanto a lei. Dietro seguiva l’Alfetta con a bordo l’agente di scorta Domenico Russo. I mafiosi, in auto e in motocicletta, armati di kalashnikov, crivellarono di colpi sia il generale sia la moglie, che morirono subito, l’agente di scorta fu gravemente ferito ma morì in ospedale un paio di settimane più tardi.

Nella sua dinamica l’attentato fu ricostruito nel dettaglio. I mandanti (Totò Riina) e gli esecutori materiali (Greco, Madonia, Ganci, Lucchese…) identificati e processati. E tuttavia l’omicidio di Dalla Chiesa, come altri eventi tragici e delittuosi della nostra storia recente, ha continuato a presentare lati oscuri. Aspetti tuttora – ancora trentacinque anni dopo – avvolti da angosciante mistero. A cominciare dai legami della mafia, probabilmente inserita nei gangli delle istituzioni come un mostro tentacolare, per continuare con presunti e ipotizzati rapporti riferibili ancora al sequestro Moro e al fatto che Dalla Chiesa avesse potuto leggere per intero il dossier redatto dal presidente democristiano prigioniero delle Brigate rosse, e ritrovato nel covo di via Monte Nevoso…

I fatti e i commenti del delitto di trentacinque anni fa sono stati ricostruiti – e naturalmente non soltanto in questa occasione di particolare ricordo – con diverse commemorazioni e articoli di giornale. I cosiddetti “cento giorni” del generale a Palermo – tanto durò il suo “mandato” di prefetto – sono stati analizzati, rivisti, discussi.

In libreria, qualche settimana fa, è uscito un bel libro del giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli, pubblicato da Rizzoli: “Dalla Chiesa – Storia del generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia”. Galli, da bravissimo “cronista scarpinatore” qual è, ha ripercorso l’intero tracciato della vita del generale, dal periodo del servizio militare, in guerra e durante la Resistenza, e poi nell’Arma dei carabinieri, sempre come ufficiale, prima in Sicilia, dove s’era trovato dinanzi alla banda di Salvatore Giuliano, e poi via via a Firenze, alla caserma di via Moscova a Milano, e poi il comando della Divisione Pastrengo, e la lotta al terrorismo… Un vero soldato.

La differenza tra il generale che combatté, vincendolo, il terrorismo, e il generale-prefetto che morì a Palermo è tuttavia ancora bene interpretabile. Contro il terrorismo aveva accanto a sé non solo i suoi uomini più fidati, i militari dell’Arma che scelse a uno a uno e che portò nel suo pool, ma l’intero Paese. A Palermo fu lasciato solo.

Uno dei tre figli del generale, Nando Dalla Chiesa, intervistato sul Corriere proprio da Andrea Galli, ha parlato con chiarezza: “La giustizia ha fatto il suo corso, e non è stato né poco né senza costi… È rimasto fuori dalla sentenza quel che i magistrati hanno chiamato la ‘convergenza di interessi’ o i ‘mandanti esterni a Cosa nostra’, su cui pure sono stati avviati filoni di indagini, per ora senza risultati. Io credo però che la verità storico-politica, diciamo meglio la verità morale, sia sotto gli occhi di tutti. Contro mio padre si mobilitò un sistema di potere che si reggeva sull’asse Roma-Palermo e che aveva il suo nucleo centrale nella corrente andreottiana”. Per averlo sostenuto – ha aggiunto il figlio di Dalla Chiesa – “pago ancora il prezzo in termini di censure e pregiudizi. È il mio stigma da trentacinque anni…”.

Anche il generale s’era reso conto d’essere lasciato solo, non diciamo d’essere lasciato allo sbaraglio, ma quasi.

V’è da domandarsi perché un uomo della sua statura, un militare esperto e capace all’apice della sua vita di combattente si sia lasciato infine sopraffare. Si può azzardare una risposta: proprio perché era un soldato, pronto a obbedire e a morire per il suo Paese.

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