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Società

E ADESSO, PUBBLICITÀ!

GIOIA GENTILE - 02/02/2018

segre“Ma sono proprio io? Io? Io?”. L’incredulità di Liliana Segre, tredicenne deportata in un lager nazista, di fronte alle atrocità di cui è spettatrice e vittima, è l’incredulità che si rinnova – credo e spero – in tutti noi che ascoltiamo quei racconti, anche in chi, come me, li ha già sentiti e letti numerose volte.

Liliana Segre è una distinta signora di ottantasette anni – ci tiene a sottolinearlo – da poco nominata Senatrice a vita dal Presidente della Repubblica ed è seduta di fronte a Fabio Fazio sulla poltrona di Che tempo che fa. Domenica 28 gennaio, prima serata.

La Signora parla con voce da ragazza, ha un eloquio limpido e fluente; se non ci fossero le immagini penseresti di stare ascoltando una ventenne. Racconta la sua storia terribile con chiarezza e semplicità, senza manifestare angoscia, né odio o rancore, quasi con il distacco di un documentarista, e ciò rende la sua testimonianza ancora più drammatica. Fa scorrere davanti ai nostri occhi immagini già viste cento volte nei film o lette sui libri e sui giornali, e tuttavia ancora sconvolgenti. Ci parla della sua partenza da Milano, binario 21 della stazione centrale, binario sotterraneo per nascondere la deportazione alle persone “normali”. Carrozze-merci, dove vengono ammassati bambini e adulti, donne e uomini, giovani e vecchi, persino gli ospiti novantenni di una casa di riposo. Ci descrive il suo arrivo ad Auschwitz: i vecchi spinti fuori dalle carrozze perché, dopo sei giorni di immobilità non riescono neppure a stare in piedi, e dappertutto ordini urlati, cani che abbaiano, confusione, un’indicibile confusione.

È a questo punto che la Signora pronuncia la frase che ho riportato all’inizio, forse l’unica in cui si sia lasciata andare all’emozione dei ricordi. Gli spettatori – e forse anche i telespettatori – trattengono il fiato ammutoliti.

E il conduttore che cosa fa? Annuncia, sia pure con una certa reticenza, “Ci fermiamo per la pubblicità. Riprendiamo fra due minuti”. Non volevo crederci.

Altre cose si potevano fare in quel momento: restare in rispettoso silenzio, alzarsi in piedi, abbracciare la Signora in un caloroso applauso, formulare una domanda adatta alla circostanza. Tutto, tranne che offendere la memoria di quegli eventi con un’oltraggiosa interruzione pubblicitaria.

È come se, durante una visita ad Auschwitz, ci conducessero in una baracca per farci assistere ad una promozione commerciale. Come se, nel padiglione dei bambini dello Yad Vashem, la voce che ricorda i nomi di tutti i bambini uccisi improvvisamente comunicasse: “Ed ora due minuti di pubblicità. Ma l’elenco delle vittime continua, restate con noi”.

Mi domando: è mai possibile che un servizio pubblico come la RAI non possa trovare il modo per sospendere i messaggi pubblicitari quando l’argomento della trasmissione lo richiede? Possibile che la misura di tutto debba essere il denaro? E comunque, non si potrebbe ridurre anche solo una minima parte delle spese per altre trasmissioni – una a caso: il mastodontico e pletorico festival di Sanremo – per consentire ad una Signora di parlare di sé e della Storia tributandole il rispetto che merita?

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