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Il Mohicano

“IN STAI LUR”

ROCCO CORDI' - 16/03/2018

moroQuella mattina del 16 marzo poteva essere serena e tranquilla come tante altre. L’inizio di una nuova giornata di lavoro con in testa le tante cose da fare e la voglia di ritagliarsi qualche spazio in più per gli affetti privati. Ora ancor più di prima. Da un mese ero diventato papà. Una dimensione nuova tutta da scoprire e coltivare, anche se gli impegni di partito non davano mai tregua.

Quella mattina del 16 marzo 1978 avevo accompagnato mia moglie e mio figlio dai suoceri. Stavo per andare via quando dalle scale vidi scendere di corsa zia Livia, che abitava al piano superiore. “Hai sentito cosa è successo?” mi disse tutta agitata. Pensando che si era presa l’ennesima arrabbiatura ascoltando la trasmissione radiofonica “Radio Selva” (condotta dall’omonimo giornalista, noto per le sue sparate anticomuniste e pertanto ribattezzata “radio belva”) le dissi. “Se non vuoi farti venire un infarto ogni mattina è meglio che cambi canale”. Mi rispose quasi urlando “… ma quale belva e belva, hanno rapito Aldo Moro!”. Ero ammutolito. Il suo volto e la sua agitazione mi fecero capire che non era per niente uno scherzo.

Qualche minuto prima le trasmissioni radiofoniche erano state interrotte per dare la “drammatica notizia che ha dell’incredibile”. Era la prima informazione sull’agguato di Via Fani a Roma in cui erano stati trucidati i cinque uomini della scorta dell’on. Aldo Moro, Presidente della Democrazia Cristiana, il partito maggiore di allora. Sul destino di Aldo Moro, rapito, le notizie erano alquanto frammentarie e contraddittorie: poteva essere morto o ferito o ancora vivo. Solo più tardi gli stessi autori dell’agguato, le Brigate Rosse, faranno sapere che Moro è vivo ed è loro prigioniero.

“…In stai lur !” esclamò la zia! “Sono stati loro”. Ma “loro” chi? So bene cosa intendeva dire la zia. “Loro” erano quelli al potere, i “servizi” interni deviati e quelli stranieri, i soggetti annidati dentro e fuori le istituzioni. “Loro” fin dalla Liberazione, avevano fatto di tutto per impedire il pieno dispiegamento della democrazia prima con la repressione violenta dei movimenti di lotta contadini e operai, poi dopo a partire dalla strage di Piazza Fontana (dicembre 1969) con la strategia della tensione a suon di bombe e tentativi di golpe, poi ancora con le uccisioni ad opera delle brigate rosse e altri gruppi terroristici.

Dicendo “loro” zia Livia pensava a tutto questo ed era certa (lei che ancora ragazza aveva fatto la staffetta partigiana) che quella violenza e tutto quel sangue non avevano nulla a che fare con le lotte operaie neppure se gli autori materiali dicevano di farlo in loro nome.

Ragionamenti semplici, ma non lontano dal vero. Perché in politica, come nella vita, più che le parole o i nomi contano i fatti e i loro effetti.

E che il rapimento dell’On. Moro fosse finalizzato ad interrompere drammaticamente la fase nuova apertasi in Italia dopo il voto di un anno e mezzo prima era più che evidente.

Le elezioni politiche del 20-21 giugno 1976 si erano concluse con due “vincitori”. Da una parte il Partito Comunista Italiano che aveva realizzato una grande avanzata conquistando poco meno di 13 milioni di voti (34,4%), dall’altra la Democrazia Cristiana sempre primo partito (e al governo) dalla Liberazione in poi, con poco più di 14 milioni di voti (38,7%). Di fronte a questo risultato anche gli alleati storici della DC, PSI compreso, ritenevano che bisognava voltare pagina, ponendo fine alla Conventio ad excludendum (locuzione latina con la quale s’intendeva la discriminazione e l’esclusione operata contro il PCI dopo la rottura dell’unità antifascista del 1948).

Aldo Moro, presidente della DC, avvia un dialogo intenso e profondo con Enrico Berlinguer, Segretario del PCI. Moro aveva speso tutto il suo prestigio e la sua capacità di mediazione per convincere il suo partito a compiere il grande passo. Ma le resistenze e le avversità interne ed esterne al suo partito erano più forti che mai. Così pure nel PCI non fu facile per Berlinguer convincere tutti alla strategia del “compromesso storico” figuriamoci sull’idea di un governo di “unità nazionale” (in cui, è bene precisarlo, si faceva parte della maggioranza politica ma senza incarichi di governo).

Il 16 marzo il parlamento avrebbe dovuto sancire l’intesa raggiunta. Anche se il PCI, per nulla soddisfatto della composizione del nuovo governo era tentato di votare contro. Ma non c’era più tempo per discutere. L’agguato di Via Fani e il rapimento di Moro fecero precipitare la situazione. Innanzitutto bisognava rispondere al sanguinoso e inaudito attacco al “cuore dello Stato” messo in atto dalle BR. Non ci si poteva concedere altro. E fu così che per la prima volta il Parlamento diede la “fiducia” al governo senza neppure discutere. Cominciò così la stagione dell’emergenza continua in cui “l’unità nazionale” raggiunta si consumerà gradualmente fino al punto di spegnersi definitivamente. Il rapimento di Moro durerà 55 giorni fino al 9 maggio quando il suo corpo viene rinvenuto, in seguito ad una telefonata anonima, nel bagagliaio di una Renault rossa in Via Caetani, a due passi dalle sedi nazionali del PCI e della DC.

Ancora oggi a distanza di 40 anni e dopo tanti processi la verità completa su quella tragica vicenda è ancora di là da venire e, considerati gli effetti di quell’atto, mi sa che zia Livia aveva visto giusto: “…In stai lur !”

Dopo la sua esclamazione dovetti correre. In Viale Monterosa, nel bunker del PCI, l’emergenza era già scattata. Ognuno di noi doveva fare la sua parte nell’organizzare la risposta democratica e di massa contro il terrorismo e i loro sostenitori, contro ogni tentativo di involuzione autoritaria, per tenere aperta la via democratica tracciata dalla Resistenza.

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