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Attualità

“L’ECONOMIA DI DIO”

GIANFRANCO FABI - 10/03/2012

Mosaico a Tabgha, in Galilea, sul luogo della moltiplicazione

“L’economia di Dio, la moltiplicazione dei pani”. Questo il tema di un incontro che si è svolto nei giorni scorsi al Centro San Fedele di Milano nell’ambito di un’iniziativa ecumenica in collaborazione con il Centro culturale protestante. Pubblichiamo uno stralcio della relazione tenuta in questa occasione da Gianfranco Fabi.

 Il brano evangelico della moltiplicazione dei pani costituisce un forte elemento di riflessione, un’esperienza solo in apparenza paradossale, perché l’economia e la società non si possono certo costruire sui miracoli, ma un episodio che è invece profondamente e radicalmente costruito sulla concretezza della realtà.

Una concretezza di cui l’economia moderna ha estremamente bisogno. Anche perché la crisi economico-finanziaria che è iniziata nell’estate del 2008 e che stiamo ancora drammaticamente vivendo è stata innanzitutto una crisi di verità con una lunga catena di illusioni che in qualche caso sono diventate delle vere e proprie truffe intellettuali come aveva preconizzato il grande economista John Kenneth Galbraith nel suo libro “L’economia della truffa”.

1) Alla base c’è stata l’illusione che la finanza potesse camminare con le proprie gambe e che fosse possibile continuare senza fine a fare i soldi con i soldi degli altri. C’è stata quasi la pretesa di “fare miracoli” e di costruire la ricchezza non con il lavoro, ma con l’ingegneria finanziaria.

2) Poi è venuta l’illusione che si potesse annullare il rischio spezzettandolo e dividendolo, e alla fine nascondendolo all’interno di strumenti finanziari sempre meno trasparenti.

3) Quindi c’è stata l’illusione che i debiti, anche quelli degli Stati, potessero essere considerati come un dato di fatto di cui nessuno avrebbe mai chiesto la restituzione.

4) Infine c’è stata l’illusione che l’economia potesse fare a meno della persona nei suoi molteplici aspetti di cittadino, lavoratore, risparmiatore, consumatore, imprenditore, portatore di bisogni e di speranze, di rispetto della vita e di qualità della vita stessa.

Su queste basi, politici, banchieri e finanzieri hanno costruito un castello di carte in cui ognuno ha giocato il proprio ruolo cercando di massimizzare i profitti e il consenso in una continua rincorsa a coprire i problemi più che a risolverli.

Tutt’altra cosa è l’economia di relazione, di partecipazione, di gratuità e di dono che si può leggere nell’episodio della divisione dei pani e nella vita dei primi cristiani.

Lascio ovviamente ai teologi e agli esegeti biblici lo spiegare se il racconto di Marco e degli altri evangelisti costituisca una cronaca diretta e concreta di quanto effettivamente accaduto, oppure vada letta quasi come una parabola, quasi come una immagine per aiutare la riflessione e per comprendere a fondo la testimonianza di Gesù.

Resta il fatto che questo episodio avvenuto sulle rive del lago di Tiberiade costituisce un messaggio profondamente attuale anche per leggere la realtà in cui viviamo, noi oggi, e per scoprire l’atteggiamento di Gesù verso questa realtà.

In primo luogo perché, come spiegherà lo stesso Gesù il giorno dopo alle stesse persone a Cafarnao, non è il pane materiale che bisogna cercare, ma il pane di vita eterna nell’Eucarestia. Il miracolo dei pani e dei pesci è quindi la prefigurazione esplicita e chiara dell’offerta che Cristo fa di sé stesso al mondo.

Ma il modo in cui avviene questo fatto è estremamente importante.

C’è innanzitutto l’attenzione al prossimo (“Vide molta folla e si commosse per loro”), c’è uno sguardo di affetto, di comprensione, di profondo interesse per il loro destino.

C’è l’indicazione degli apostoli come ministri (“Date voi da mangiare”) e c’è l’esplicita e immediata differenza tra la logica normale (mandiamoli a casa oppure se c’è bisogno di pane possiamo solo andare a comprarlo) e la logica rivoluzionaria di Dio capace di trasformare la povertà in ricchezza.

C’è quindi la risposta concreta a un bisogno, una risposta che non viene realizzata con la bacchetta magica, ma che viene proposta utilizzando quello che la realtà offre. Il miracolo si realizza nel momento in cui qualcuno offre tutto quello che possiede e condivide con gli altri i cinque pani e i due pesci. E peraltro nessuno dei quattro evangelisti che raccontano il miracolo parlano di “moltiplicazione” anzi tutti dicono esplicitamente “divise i due pesci tra tutti”. La parola “moltiplicazione” non c’è nel testo, c’è solo nel titoletto dell’episodio, titoletto probabilmente aggiunto in epoca successiva per rendere più immediatamente comprensibile il racconto, ma attuando in qualche modo una semplificazione.

Non c’è quindi una magia: è la realtà che prende forma e che grazie alla fede si mette al servizio della persona.

Il sistema economico che viene raffigurato è quindi un sistema non più basato sullo scambio, sul valore monetario, su quello che oggi chiameremmo sulla domanda e sull’offerta. Siamo di fronte invece ad una “economia comunitaria” basata sulle relazioni e sui valori profondi dell’umanità.

Il mangiare insieme ha una profonda sacralità perché è insieme una festa e il riconoscimento di una unità di fondo. Ed è anche l’annuncio profetico della salvezza come scrive il profeta Isaia (25,6):

Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
Mosaico a Tabgha, in Galilea, sul luogo della moltiplicazione
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati

Ma non c’è solo l’annuncio della salvezza. C’è anche nell’episodio evangelico tutta la logica della condivisione, una logica che sta alla radice della visione cristiana dell’economia e che è stata espressa con grande efficacia nell’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.

L’enciclica introduce con chiarezza il fatto che la reciprocità e la gratuità devono diventare elementi fondativi dell’economia moderna, quell’economia che normalmente chiamiamo economia di mercato. Già l’enciclica Centesimus annus aveva in un certo senso “sdoganato” l’economia di mercato considerandola come il sistema storicamente più efficace per lo sviluppo.

“È forse questo (il capitalismo, ndr) il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile? La risposta è ovviamente complessa. Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d’impresa», o di «economia di mercato».

Ma la Caritas in veritate compie un ulteriore passo. L’economia di mercato può tendere verso la giustizia sociale solo se saprà unire agli strumenti della concorrenza e del profitto anche elementi sostanziali di gratuità e quindi di quella che possiamo chiamare l’economia del dono.

Che cosa è la gratuità. Non è solo il dare o il ricevere qualcosa gratis, un regalo fatto magari con la migliore delle intenzioni. Ma è soprattutto un creare una relazione per cui l’altro è riconosciuto nella sua dignità e nel suo essere e non secondo la nostra utilità. In un suo commento all’enciclica Luigino Bruni racconta che Primo Levi ricordava che ad Auschwitz notava spesso un fenomeno curioso: il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità.

«Un muro dritto» può così diventare espressione di gratuità, poiché testimonia del fatto che in tutte le persone e in tutte le cose, persino nei «muri», c’è una vocazione che va rispettata e valorizzata.

Gratuità significa allora “impagabilità”, ”qualcosa che non ha prezzo”. Kant sottolinea più volte come l’uomo ha una dignità ma non può avere un prezzo. E così la dignità umana diviene il punto centrale e la sorgente di ogni diritto dell’uomo così come l’espressione della trascendenza della persona e della società: la persona per essere se stessa ha bisogno di vivere in società ma non si esaurisce in essa; la società serve alla persona, ma la persona deve restare al centro e nello stesso tempo al di sopra della società. Ogni persona è unica, irripetibile, indisponibile, incommensurabile. Il comportamento “gratuito” nell’economia è il riconoscimento operoso e costruttivo della dignità dell’altro.

È così che il dono dei cinque pani e dei due pesci diventa l’elemento risolutivo di una situazione complessa, come quella che aveva portato cinquemila persone a seguire Gesù senza preoccuparsi di portarsi dietro qualcosa da mangiare.

Quei cinque pani e quei due pesci diventano la realtà con cui Gesù, i discepoli e la folla si confrontano. Una realtà che umanamente e razionalmente è estremamente povera, ma una realtà in cui Gesù esalta la positività del dono e della relazione perché riconosce la dignità di ciascuno e perché fa diventare l’offerta di quei pochi pani una soluzione incredibilmente reale. Con i discepoli che sono intermediari decisivi, ministri dell’opera di Gesù.

Come scrive Papa Benedetto XVI nella recentissima introduzione al libro del card. Cordes “L’aiuto non cade dal cielo”

“In quell’ora (nell’ultima cena) Gesù non distribuisce solo pane, ma se stesso: Egli si dona. Già nel pasto quotidiano lo spezzare del pane ha un doppio significato: è allo stesso tempo un gesto di condivisione e di unione. In virtù del pane condiviso la comunità a tavola diventa una: tutti mangiano dello stesso pane. La condivisione è un gesto di comunanza, di donazione, che rende partecipi della famiglia anche gli ospiti”.

E ancora: “L’espressione “spezzare il pane” nella Chiesa nascente andò così a designare l’Eucarestia , dunque ciò che la caratterizzò e la tenne unita come nuova comunità. (…) Lo spezzare il pane era di per sé un’immagine di comunione, dell’unire attraverso la condivisione. I cristiani ora possono vedere nell’atto di spezzare il pane compiuto da Gesù un’immagine dell’ospitalità di Dio, nella quale il Figlio incarnato dona se stesso come pane di vita. Di conseguenza la frazione del pane eucaristico deve proseguire nello “spezzare il pane” della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così a unire. (…) L’Eucarestia deve divenire Diaconia, servizio e dono nella vita quotidiana”.

Potremmo dire la quotidianità del miracolo. E’ in fondo questa l’economia di Dio: valorizzare tutta la realtà ponendo ogni cosa al servizio dell’uomo e l’uomo al servizio dell’opera di Dio.

Una quotidianità che diventa esplicita nel brano degli atti degli apostoli e nei racconti delle prime comunità cristiane. Di grande emozione è la lettera a Diogneto, di autore anonimo, ma sicuramente risalente al secondo secolo:

“ I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini (…) Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo.”

Ecco allora il paradosso del miracolo che ci richiama fortemente alla pienezza dell’umanità. Quello che è apertamente espressione del soprannaturale che diviene sollecitazione alla vita in fondo semplice di ogni persona. Perché la dimensione sociale, politica, è strettamente connessa, come ricorda ancora la Caritas in veritate, con la questione antropologica. Infatti Papa Benedetto sottolinea che la crisi e le difficoltà, di cui soffrono gli Stati, la società e l’economia, sono dovute in primo luogo alla mancanza o alla carenza di un’adeguata ispirazione solidaristica, che sia orientata al bene comune: il bene comune, che significa «prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pòlis, di città”. (Caritas in veritate, 7)

Ma il bene comune non la somma di tanti beni individuali, non è determinato da quella che Adamo Smith chiamava la mano invisibile del mercato; il bene comune per i cristiani e l’unità dei figli di Dio che mangiano lo stesso pane e che sanno avere uno sguardo commosso l’uno sull’altro, che sanno con-dividere (dividere-con) tutto quello che hanno, che vivono l’Eucarestia non solo come promessa di un’unità trascendente, ma anche, come tensione quotidiana all’unità e al dialogo. Scriveva il card. Martini in una sua lettera pastorale (“Attirerò tutti a me”, 1982)

“ogni passo compiuto con buona volontà verso un dialogo tra le persone, verso un costume di comprensione e collaborazione, verso l’intesa su di un’immagine di un uomo di ampio respiro, costituisce un segno e una preparazione dell’unità degli uomini in Cristo”.

Nella convinzione, come scrive San Paolo nella lettera ai Romani, che: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”.

Tutto, ma proprio tutto: anche cinque pani e due pesci. Povere cose messe in comune che hanno molto più valore di grandi ricchezze custodite nei forzieri. È la ricchezza della realtà di fronte a una moltitudine che stava vivendo, magari a sua insaputa, il più grande avvenimento nella storia del mondo.

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