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Apologie Paradossali

EUROPA/4 ARMONIA

COSTANTE PORTATADINO - 10/05/2019

monnet(S) Mi hai mandato in ferie per quasi un mese, così ti sei trastullato nell’ottimismo di un cambiamento d’epoca positivo, per ritrovarti di fronte alla dura realtà, dopo le feste pasquali e quelle laiche: Siri, Manduria, Casa Pound, la nuova tangentopoli milanese-varesotta; vuoi ancora nutrire illusioni?

(C) La pietra della sfiducia, meglio, della mancanza di fede, dice Papa Francesco, non può essere rimossa solo dalla buona volontà di qualcuno, ci vuole una forza speciale, è quello che ci dice la Pasqua. Non mi sono abbandonato all’ottimismo, anzi ho affermato che la speranza sussiste solo in quanto fondata su forze e ragioni che non si esauriscono in progetti umani. La nota positiva riguardava solo la possibilità di adempiere al rimedio indicato da Schlesinger per recuperare la fiducia della gente comune: non separare il potere, nel suo esercizio concreto, dalle idee. Questo mi sembra un compito realistico, non utopistico. L’occasione delle elezioni europee può essere particolarmente favorevole per mettere da parte ideologie, pregiudizi, rancori e anche interessi materiali. Non ci giochiamo il nostro governo nazionale, almeno direttamente, visto che entrambi i partiti dichiarano solennemente di voler portare a termine il contratto di legislatura. È il caso propizio per guardare al futuro e decidere la nostra preferenza, una volta tanto non per un calcolo opportunistico di breve respiro, ma per una prospettiva di valore intrinseco e di durata tale da essere efficace per una generazione almeno.

(O) Questa tua professione di realismo si avvicina molto alla mia indole, che Conformi disprezza come sognatrice. Ma oggi voglio stare attaccato al passato, quasi remoto, quello dei cosiddetti ‘padri dell’Europa’ e del loro sogno. Permettetemi di prendere tutto lo spazio necessario. Il primo esempio che vi voglio portare è quello di Jean Monnet.

È stato forse il primo propugnatore di un ‘Europa che superasse i nazionalismi che, dopo aver provocato la prima guerra mondiale, avevano costruito sugli errori dei trattati di pace le premesse della seconda. Ma mi piace ricordarlo soprattutto perché non fu mai un politico di professione, non un uomo di governo né di partito. Nato a Cognac e figlio di un produttore di questo liquore, vale a dire che più francese di così non si poteva, fin dalla partecipazione come diplomatico e negoziatore internazionale alla prima guerra mondiale aveva operato per allargare la cooperazione tra le nazioni alleate, in particolare tra Francia e Gran Bretagna, coinvolgendo in seguito gli Stati Uniti. Diventato poi vicesegretario della Società delle Nazioni, ne sperimentò presto i limiti ristrettissimi e, lasciato questo incarico, mise la sua esperienza internazionale al servizio del difficile risanamento finanziario delle economie vacillanti di paesi prostrati dalla guerra e dalla crisi, come Austria e Romania.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu incaricato di coordinare gli sforzi dell’industria bellica francese con quella britannica; in questa circostanza si trovava a Londra nel momento della disfatta francese e riuscì a convincere Churchill a dichiarare l’unione politica con la Francia, intento frustrato proprio dal nuovo governo di Petain che invece accettò l’armistizio a condizioni vergognose per la Francia. Collaborò quindi con De Gaulle ad organizzare il Governo in esilio. In questo periodo Monnet approfondì la propria riflessione sulle cause della conflittualità tra le nazioni europee, arrivando alla conclusione – come si evince da una sua nota del 5 agosto 1943 – che il pericolo più grande per la ricostruzione dell’Europa e della pace sia la «credenza che, attraverso il nazionalismo e la sovranità nazionale affermata in tutte le sue forme, politiche ed economiche, le ansie dei popoli potranno essere placate e i problemi del futuro risolti».

Al contrario, a suo avviso, non vi sarà pace in Europa finché non saranno raggiunti due obiettivi: il ristabilimento di regimi democratici in tutti i paesi; l’organizzazione politica ed economica di un’“entità europea”. Quest’ultima condizione è essenziale, da un lato, per non ripetere gli errori commessi nel primo dopoguerra, quando gli Stati si sono ricostruiti sulla base prevalente della sovranità nazionale e hanno perseguito politiche di prestigio e di protezionismo a livello economico, ricadendo nella corsa alla costruzione di vasti eserciti; dall’altro lato, è essenziale ad assicurare «la prosperità che le condizioni moderne rendono possibile e di conseguenza necessaria».

Dalla fine della guerra, Monnet tenta di riproporre questi ideali dando loro una consistenza politica e istituzionale, accompagnato in questo da svariate correnti di pensiero, molto differenziate e spesso utopistiche, che non riescono a dar vita ad organizzazioni importanti, finché Monnet stesso non riesce a convincere il governo francese, nella persona di Robert Schumann, Ministro degli Esteri, ad avanzare un ipotesi di collaborazione tra le industrie del carbone e dell’acciaio di Francia e Germania, aperta ad una collaborazione anche con altri stati europei. Diventerà la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), il cui particolare significato consiste nel regolare e nel sottoporre ad un controllo sovranazionale il settore che è la base dell’industria bellica stessa. Ricordiamo, come esempio significativo che l’industriale tedesco Krupp fu processato a Norimberga insieme ai dirigenti nazisti. Monnet diventerà il primo Presidente della CECA nell’agosto del 1952.

In seguito Monnet cercherà di allargare le aree di integrazione economica e politica: fallirà, per la mancata ratifica del parlamento francese, la creazione della CED (Comunità europea della Difesa), tentativo politicamente molto ambizioso, ma proseguiranno gli sviluppi in campo economico nella direzione di quello che sarebbe diventato il mercato comune e e nel campo dell’uso pacifico dell’energia nucleare, diventato Euratom con i trattati di Roma. Persuaso che l’opinione pubblica dei vari Paesi non sia ancora matura per fare passi significativi verso una sostanziale integrazione politica, come vorrebbero i federalisti, Monnet privilegia un metodo che verrà definito ‘funzionalismo’, puntando essenzialmente sulle elitès economiche e politiche, per realizzare processi d’integrazione per passi successivi. Questo metodo lo porterà in un primo tempo a collaborare con De Gaulle, divenuto Presidente della Repubblica con la nuova costituzione semipresidenziale e di fatto arbitro della politica europea, diventandone però convinto oppositore quando costui intenderà sottomettere le aspirazioni europeiste alle strategie francesi di predominio, marcando un deciso ritorno verso posizioni nazionalistiche, profondamente avversate da Monnet.

Vorrei fermarmi a questo punto; da qui in avanti lo svolgimento del percorso verso l’unità europea come orizzonte non solo economico, ma civile e politico, conosce passi avanti e anche indietro, forse ancora di più in direzioni diverse, con l’abbandono progressivo di ideali altissimi ma non condivisi e contemporaneamente realizzando un allargamento geografico (che Monnet non vedrà per ragioni anagrafiche) difficile da sostenere.

La lezione che ci offre Monnet è quella di un ideale umano perseguito coerentemente e insieme realisticamente, senza cadere nell’opportunismo o nell’utopia. Ha indicato una strada possibile per la costruzione di una Europa dei popoli, non solo degli stati, non principalmente dei potentati economico-finanziari.

Questa strada è interrotta oggi solo in apparenza, dalla volontà di alcuni gruppi politici di sfruttare a fini di potere le angosce sociali determinate dalla persistente crisi economica. Spero di riuscire a mostrare, prima delle prossime elezioni, la possibilità e le condizioni per riprendere a percorrerla con quella coerenza tra ideali e comportamenti che sola può restituire alla gente comune la fiducia nei governanti.

(S) Sebastiano Conformi (C) Costante (O) Onirio Desti

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