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Urbi et Orbi

“SEROTONINA”

PAOLO CREMONESI - 28/06/2019

serotoninaGirata l’ultima pagina di “Serotonina” di Michel Houellebecq, si rimane con l’amaro in bocca. E anche se la chiusa del romanzo accenna a un vago motivo di speranza di cui manca però totalmente il dettaglio esistenziale, è difficile esimersi dal domandare: come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto?

Sì, perché il pregio di questo romanzo, tra i più venduti nel mondo, è quello di descrivere il tipo umano di oggi senza sconti, zigzagando tra eccessi sessuali pornografici consumati come unici barlumi di breve tregua dal nichilismo, uno smodato uso di alcool in modalità anestetico sino a una controllata somministrazione di psicofarmaci, la serotonina appunto che “Privo sia di desideri sia di motivi per vivere […], manteneva la disperazione a un livello accettabile”.

Rapporti umani ridotti al minimo (il protagonista si rinchiude in una camera d’albergo). La televisione accesa giorno e notte come unica arma di distrazione di massa, il mangiare e bere bene, regressione a una cultura orale.

Non è tanto quindi a colpire la profezia della società, contenuta nelle pagine del libro quando un anno prima della rivolta dei ‘gilet gialli’ descrive con analoghi accenti una protesta degli allevatori francesi, quanto l’ intuizione di ciò che oggi è un benestante occidentale: “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio alla divinità del Figlio di Dio, Gesu’ Cristo?” si domandava già un secolo fa Dostoevskj.

«Mi riesce penoso – scrive Houellebecq a Bernard Henry Levy – ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora”.

Dietro a questa confessione c’è tutto il grido nascosto del romanzo. Grido la cui risposta non può essere in un discorso, in una dottrina, tanto meno in un’etica. E il cristianesimo da questo punto di vista, come continuamente ci ricorda Papa Francesco, non può prescindere da una severa autocritica.

Qualche settimana fa un caro amico medico chirurgo mi ha raccontato quanto gli era accaduto. Una giovane mamma giunge al suo reparto con la figlia malata. Era stata frettolosamente dimesso da un altro ospedale ma i dolori alla testa della piccola persistevano. Una rapida analisi evidenzia una emorragia cerebrale in corso di cui la precedente struttura sanitaria non si era accorta. Il ricovero e successivi tre interventi non riescono a salvare la bimba. “Puoi immaginare lo strazio – mi dice – di dover dare la notizia alla madre, che sino a pochi giorni fa l’accompagnava a scuola”.

Mesi dopo la madre torna all’ospedale. Cerca il mio amico medico: “Sa – esordisce – le volevo dire che nell’atroce dolore con cui ho vissuto queste settimane un unico punto di luce mi ha sorretto. È stato il modo con cui lei e i suoi colleghi mi hanno guardata. Quello sguardo di empatia e compassione non mi ha mai abbandonata: sono giunta a cercarvi nel parcheggio per potervi incontrare”.

In un consiglio di classe si discute del perché una classe sia cambiata in meglio. I programmi, i nuovi libri di testo, l’offerta formativa, rispondono le professoresse, sino a quando una mamma, rappresentante di istituto, si alza in piedi di scatto e dice: questa classe è cambiata per come quest’anno l’insegnante di scienze li ha guardati.

Un altro amico, in una assemblea pubblica, racconta di una passeggiata a un celebre santuario piemontese. Nel piazzale c’è soltanto un ragazzo appoggiato a un parapetto. “Buon giorno!” dice l’amico. L’altro non risponde. All’uscita il giovane rincorre quella persona: “Sa, quando sono arrivato al santuario volevo farla finita. Ma il modo con cui mi ha guardato e salutato, mi ha fatto desistere”.

Sguardi, incontri, abbracci. Oggi il cristianesimo sta in piedi solo a questo livello. Una Presenza in grado di essere compagna: come Cristo per i discepoli di Emmaus o per la vedova di Nain.

Peccato che Houellebecq non abbia incontrato, almeno sino a oggi, persone così.

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