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Cultura

IL CANTO DI UN UOMO

GIOIA GENTILE - 25/10/2019

auschwitz“…Considerate se questo è un uomo”: il verso dell’epigrafe che apre l’opera di Primo Levi – Se questo è un uomo, appunto – è noto a tutti e spesso ricordato, assieme all’intero componimento poetico. Ma chi può dire di ricordare i dettagli del suo diario di prigionia? Io lo avevo letto quasi cinquant’anni fa e me ne era rimasta solo una vaga sensazione di sgomento. Il centenario della nascita dell’autore, che ricorreva il 31 luglio di quest’anno, mi ha fatto nascere il desiderio di rileggerlo.

Come allora, mi ha colpito la lucidità della narrazione, il procedere quasi scientifico del racconto, la deliberata assenza di pathos. Tranne che in pochissimi episodi, uno dei quali mi ha particolarmente commosso perché ha il valore di una vittoria dell’uomo sulla disumana atrocità dei campi di sterminio.

Levi è già stato trasferito – per sua fortuna, se così si può dire – Kommando chimico, in cui si trova anche Jean, uno studente alsaziano di 24 anni che ha la carica di Pikolo, cioè fattorino, addetto alla pulizia della baracca, alla consegna degli attrezzi e all’ambìto compito di andare a prendere la zuppa. Ogni giorno il Pikolo sceglie un prigioniero che lo aiuti nel trasporto della pesante pentola di cinquanta chili. Oggi ha scelto Primo.

I due si avviano, portando solo le stanghe su cui caricheranno la pentola e seguono un percorso che Pikolo ha studiato per far durare il più possibile quella “passeggiata” che interrompe il lavoro quotidiano: un’ora per raggiungere la cucina lontana un chilometro. Il ritorno sarà duro, ma intanto si godono questa libertà. Cominciano a parlare e Jean, che conosce bene sia il francese sia il tedesco, esprime il desiderio di imparare l’italiano. Te lo posso insegnare, dice Primo, ma quando? Anche adesso. Adesso? Ecco che in lui nasce l’ansia. In un’ora? Di che cosa gli parlo? Dante! Sì, Dante, chi è più significativo per l’Italia e per la lingua italiana? Intanto l’ora non è già più un’ora, il tempo incalza, deve affrettarsi, sceglie di recitare il canto di Ulisse. E comincia: “Lo maggior corno de la fiamma antica…”; recita sei versi in Italiano e poi li traduce in francese. Un disastro! Ma Pikolo capisce e lo aiuta.

E dopo i primi versi? Il vuoto. Il ricordo riaffiora solo a tratti, Primo cerca ostinatamente di ricostruire tutto nella memoria, ma sa che non può perder tempo, non può sprecare il miracolo di questo risveglio di umanità che gli è concesso: Jean è lì, lo ascolta, in attesa, non della zuppa, non del caldo di una stufa, ma di una parola. Deve spiegargli il senso di quel “misi me”, deve dirgli perché “misi me per l’alto mare aperto” non significa “mi misi”: “è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso”.

“Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino.” Primo ha fretta, una fretta furibonda, e gli restano ancora i versi più importanti: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza (…) Sono “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento – dice – ho dimenticato chi sono e dove sono.”

E invece proprio in quel momento ha ricordato chi è: un uomo, che nella forza del pensiero e nella bellezza dell’arte ha trovato la via per non soccombere all’annientamento.

Anche Pikolo se n’è accorto, lo prega di ripetere. Non perché non abbia capito, ma perché vuole fargli del bene: sa che il messaggio riguarda tutti gli uomini e in particolare loro due, che osano “ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”.

Ecco che già si vede la cucina, il tempo sta per finire. E c’è ancora tanto da dire, una cosa soprattutto: E la prora ire in giù, com’ altrui piacque. Primo trattiene Pikolo: deve assolutamente comprendere questo “Com’ altrui piacque”. “Devo dirgli, spiegargli (…) qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto (…) forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…”.

Ma l’ora è finita, non c’è più spazio per il pensiero, per la poesia, il suo nome torna ad essere 174517. Ormai sono nella fila della zuppa, sopraggiungono altri, si mettono in coda alle loro spalle. “Si annuncia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape.”

Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.

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