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Cultura

LO SGUARDO SUL DOLORE

RENATA BALLERIO - 12/06/2020

ungarettiAlcuni poeti hanno sempre avuto uno sguardo acuto sul dolore della vita e sulla sua bellezza, e da loro può venire un’ispirazione, un’idea, perfino uno sfogo fraterno e umano: così scrive Ida Bozzi in un articolo del Corriere della Sera intitolato La rinascita ha bisogno di poesia.

Si potrebbe dire che lo sguardo sul dolore non è soltanto di alcuni poeti ma è l’essenza stessa della poesia che compie il miracolo per cui il poeta arriva/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde, dono per tutti. I versi arrivano, come ben cantò Giuseppe Ungaretti, dal profondo, sommersi negli abissi dell’animo straziato ma forti per offrire l’allegria dei naufragi. E il titolo della raccolta poetica di Ungaretti morto l’1 giugno 1970, al ritorno da un faticoso viaggio negli Stati Uniti, propone la meravigliosa sfida alla rinascita: lo slancio alacre – questo racchiude in sé la parola allegria – dopo la paura, dopo lo smarrimento angosciante del naufragio. Forse molti di noi in questi giorni in cui ci siamo sentiti in trincea, come il giovane Ungaretti nel fango della Prima Guerra mondiale, abbiamo fatto riaffiorare dalla memoria quel disperato bisogno di sentirsi tanto/attaccato alla vita, quella vita che può anche apparire come una corolla /di tenebre ma che ha bisogno di illuminarsi di immenso. Ben sappiamo che per una misteriosa alchimia la precarietà della vita, la sua caducità, quel farci sentire come le foglie sugli alberi d’autunno, la disperazione che incessante aumenta, la desolata e pietrificata solitudine si trasforma nei versi di Ungaretti, come nei veri e grandi poeti, in un desiderio di vita, di affetto, di fratellanza, di respiro di luce.

Se amiamo la poesia, accettiamo, siamo quasi vivificati da questa apparente contraddizione. Proprio per questo ci si può interrogare perché la si accetta, anzi per la sua forza propositiva la si ama nella finzione letteraria, finzione non come falsificazione ma quale capacità di costruire un pensiero diverso, purificato dalla realtà, sia essa storica sia essa individuale, invece la si respinge nella vita. Chi può negare che spesso nei nostri spocchiosi giudizi quotidiani le contraddizioni non solo vengono respinte, ma cacciate via come fece don Abbondio per il fastidioso sassolino o – peggio- rimosse in rassicurante oblio?

Far vivere la poesia ungarettiana, essenziale, illuminante, di una forza ritmica in ogni parola, dai versi che, pur sospesi, si radicano con forza nell’anima, senza cedimenti alla facile pateticità, dovrebbe aiutarci a cogliere tutte le umanissime fragilità e le spiazzanti contraddizioni di questo nomade, come Ungaretti si definì nel 1916 in Dolina notturna, scritta durante un breve congedo nelle dolcezze di Napoli.

La poesia di Ungaretti è fortemente autobiografica: il suo essere soldato di trincea, il dolore per la morte del figlioletto, l’amore in tarda età per la giovanissima Bruna Bianco con la quale ci fu uno scambio di oltre quattrocento lettere. Sappiamo molto della sua giovinezza a Il Cairo, del suo essere affascinato, giovane ventiduenne, dalla ricchissima biblioteca dei fratelli Thuile con libri francesi, siamo intellettualmente coinvolti dalla sua amicizia con Picasso, e anche dal suo convertirsi al cattolicesimo nel 1928, incuriositi per il suo trasferirsi a San Paolo del Brasile come docente di letteratura italiana e del suo rientro in Italia dopo che il Brasile si schierò contro l’Asse Roma – Berlino. E ci interroghiamo sull’adesione di Ungaretti al fascismo che, di fatto, non rinnegò mai. Chiese a Mussolini la prefazione della sua raccolta poetica, fu inviato di viaggi per la Gazzetta del Popolo, fu nominato accademico di Italia, che – come è noto- era la massima onorificenza culturale concessa dal regime fascista. Chiese favori tanto che un poeta Giacomo Noventa con amara ironia trasformò l’auto rappresentazione di Ungaretti uomo di pena in uomo di penna. Forse è giunto il momento di chiedersi, senza giudicare ma con il vero coraggio di fare domande, accettando perfino il rischio di non trovare la risposta che ci piacciano, per capire come l’uomo Ungaretti, l’uomo della sofferenza, non abbia mai rinunciato a definirsi fascista in eterno. Forse anche questo è un modo per capire il mistero dell’uomo e di un maestro della poesia del Novecento.

A cinquantanni dalla morte, e forse per sentire il fruscio del tempo, come lo definì Ungaretti, è giusto non solo ricordare che in quel 1970 un’epidemia influenzale, di provenienza asiatica, fece il giro del mondo e provocò due milioni di morti, ma anche farci un augurio, cioè che qualcuno continui l’intervista che gli fecero nel 1961 e che si possano trovare con discrezione rispettosa ma coraggiosa nuove risposte. Capire l’uomo, le sue debolezze (è nota- ad esempio- la sua arrabbiatura nei confronti di Quasimodo, vincitore del premio Nobel) e dialogare con il poeta, con la sua poesia preziosa, fatta di illuminazioni ma di incessante, scrupoloso lavoro di revisioni.

Così rispose Ungaretti: La mia vita è stata dura, ho fatto il poeta nei ritagli di tempo avendo avuto sempre un secondo mestiere, ho fatto il giornalista e sono fiero di averlo esercitato per lunghi anni, ho fatto il professore che è un altro nobile mestiere e ora sono sul punto di abbandonarlo per sempre. Essere a contatto con i giovani è una delle esperienze più belle e vere che un uomo possa fare, e anche un poeta.

A noi il compito di altre domande.

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