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Apologie Paradossali

LA SETE, L’ACQUA

COSTANTE PORTATADINO - 18/06/2020

pozzoCi sarebbe una quantità incredibile di fatti paradossali su cui indirizzare la nostra attenzione …

Ma io voglio raccontare l’esperienza della sia pur modesta penuria d’acqua che a causa dello sversamento d’idrocarburi che ha inquinato l’acquedotto di Comerio, mi ha costretto a forme d’approvvigionamento d’altri tempi. D’accordo, c’era sempre l’acqua in bottiglie, per lavarsi era comunque usabile  quella del rubinetto, ma  dover andare ad un rifornimento quotidiano con le taniche da riempire di acqua che poi avremmo fatto bollire per la pastasciutta e per risciacquare i piatti, mi ha fatto venire in mente esperienze lontanissime e pensieri imprevisti.

Ho richiamato vaghi ricordi di pozzi, di carrucole e di secchi, non reminiscenze letterarie, tipo ‘Piccolo Principe’ ma veri, quando non si andava in vacanza, ma ‘in campagna’. Forse era Pogliana, forse Cimbro o qualche altro paesino, ma ricordo davvero il secchio, la corda, la carrucola, lo sguardo verso il fondo del pozzo, per distinguere l’acqua dal nero,  al momento dell’increspatura formata dal secchio che iniziava a sprofondare.

Non ne ricordo il sapore, forse già allora ci si aggiungevano le polverine per renderla frizzante. C’erano anche quelle che davano colore e vago sapore di frutta, non esistono più da decenni, si chiamavano, con una certa pretenziosa fantasia, Vinsan.

Del cattivo sapore e odore della nostra acqua, sinceramente non mi ero accorto;  anche fosse, penso che in tre quarti del mondo, Africa , Asia, America Latina, non ci avrebbero fatto caso o l’avrebbero giudicata un’acqua  ben migliore di quella loro usuale. Ma afferrando in una mano il manico della tanica da quindici litri e nell’altra quello di una più piccola, non ho potuto evitare di pensare  a quante persone nello stesso momento avrebbero fatto lo stesso gesto nel mondo, con un carico più pesante e più prezioso e non per fare qualche decina di metri fino all’auto, ma per un percorso ben più lungo, dalla fonte al villaggio.

Mi sono ricordato , in quel momento,  di alcune riflessioni scritte tempo fa, ma ancora attuali, per due mostre con a tema l’ACQUA, una a Palazzo Reale, ospite d’onore il Narciso di Caravaggio, e l’altra, dedicata ai contemporanei, nell’antico cuore pulsante dell’acquedotto di Milano, oggi Museo dell’Acqua.

Water, is taught by thirst. – L’acqua è insegnata dalla sete”.  Questo verso di Emily Dickinson mi era stato ispiratore  delle riflessioni  che qui seguiranno e continua a sollecitare un punto di vista originale sul rapporto dell’uomo con la natura.

L’acqua è più di un bene necessario all’uomo, più di un elemento costitutivo del suo corpo, più di un elemento necessario ad ogni vivente: è la culla della vita, la possibilità del divenire,  è la possibilità in se stessa. La creatura uscita dall’acqua non ha mai potuto e non può separarsene, se non per brevi periodi; la creatura umana, uscita dalla foresta pluviale, ha imparato a cercarla, a conservarla, a tornarvi quotidianamente, ad attraversare le savane stagionalmente  aride,  a popolare le terre temperate, ha imparato ad amare l’acqua come se stesso.   Io sono sete. L’uomo è sete.

 Ha imparato la pioggia fecondatrice, la sorgente, il sentiero dell’abbeverata, la cisterna della riserva, il pozzo, il secchio e l’anfora.  L’acqua ha insegnato il lavoro quotidiano, più della raccolta e della caccia, prima del fuoco, del pane e del gregge, prima del cammino.

L’acqua e la sete. La sete ha insegnato l’acqua all’uomo, la sete ha insegnato ogni cosa all’uomo.  La fame ha insegnato l’avidità, la sete la misura. Il fuoco ha insegnato la paura, l’acqua la condivisione. La preda ha fatto crescere i desideri della terra, la pioggia quelli del cielo. Il seme gettato nella terra ha insegnato l’attesa, il crescere dello stelo  nuovo ha insegnato il dono della pioggia accanto alla volontà del lavoro.  Lo sbocciare del fiore, il divenire del frutto, la gioia del raccolto, hanno insegnato il tempo.

La sete ha insegnato il tempo quotidiano e quello delle stagioni.

L’uomo ha pensato se stesso come essere possibile  a cominciare dal comprendere l’inestinguibilità della sua sete materiale, la sua insuperabile dipendenza e insieme la sua libertà, la capacità di confrontarsi con  il limite quotidiano, di allontanarsi dal fiume fangoso o di risalirlo fino ad acque più chiare e fresche; ha scoperto l’inestinguibilità del suo desiderio e insieme la possibilità che venisse soddisfatto, la traccia  e il segno scalpellato nella roccia accanto alla sorgente.

A giusta ragione gli antichi avevano eletto le Ninfe a protettrici delle fonti e gli dei dell’Olimpo ad autori del ciclo della pioggia e della vita , ma più ancora la Bibbia, da  Abramo ai profeti, dal battesimo  fino all’ultima parola di Gesù in Croce, fa della sete  e dell’acqua viva il punto d’incontro del divino e dell’umano.

 E mentre trascino le mie taniche mi chiedo: che fine ha fatto la scaltra Samaritana, che voleva “di quell’acqua, per non venire più ad attingere”?  Sarà stata ripresa dal divenire, dal quotidiano ritorno alla fonte che non sazia, si sarà dimenticata di quel inizio di cambiamento vero? Avrà avuto un settimo marito? Avrà continuato ad adorare sul monte, nel luogo dell’aridità? Essa si colloca al bivio di due civiltà, quella dell’eterno ritorno, della possibilità che mai si compie, ma chiude il ciclo delle esistenze in se stessa, come il ciclo stagionale della pioggia ritorna ogni volta su esseri diversi e immemori,  e la civiltà dell’avvenimento definitivo, che apre la storia umana a una meta e traccia una strada per raggiungerla.  Il simbolo dell’acqua nella civiltà occidentale non sarà più lo stesso.

A giusta ragione i contemporanei, che poco si curano di quell’acqua viva, si procurano invece trivelle, captazioni, pompe, serbatoi, tubazioni, filtri, potabilizzatori, carboni attivi, by pass, macchine per interventi d’emergenza? Certo, a giusta ragione.

Ma in quei giorni,  mentre collocavo le opere degli artisti dove prima pulsavano le macchine dell’acquedotto capaci di spingere lontanissimo fiumi d’acqua,  pensavo all’assetato Saint-Exupery, naufrago nel Sahara, con la sua sete  inestinguibile di verità e di bellezza, e al beduino, suo salvatore, ignaro di pompe elettriche, di valvole, di tubazioni,  dotato di un solo otre, ma ricco di umanità.

“All’arabo è bastato guardarci. Ha premuto con le mani sulle nostre spalle e gli abbiamo obbedito. Ci siamo sdraiati. Qui non esistono più né razze, né lingue, né divisioni C’è questo nomade povero che ha posato sulle nostre spalle delle mani da arcangelo. Abbiamo atteso, con la fronte nella sabbia. E adesso beviamo, bocconi, con la testa nel catino, come vitelli. Il beduino se ne preoccupa e ci costringe continuamente a interromperci. Ma appena ci molla, torniamo a tuffare l’intero viso nell’acqua. (…) Quanto a te  che ci salvi, beduino di Libia, ti cancellerai tuttavia per sempre dalla mia memoria. Non ricorderò più il tuo volto. Sei l’Uomo e mi appari col volto di tutti gli uomini insieme. Non ci hai nemmeno guardati in faccia e ci hai già riconosciuti. Sei il fratello beneamato. E, a mia volta,  ti riconoscerò in tutti gli uomini. Mi appari illuminato di nobiltà e di benevolenza, gran signore che hai il potere di dare da bere. In te, tutti i miei amici e i miei nemici camminano verso di me, e non ho più un solo nemico al mondo.”  

Questo modesto inconveniente che mi è capitato, cari amici, vi priva del solito dialogo con Onirio e Sebastiano e me ne dispiace. Ma capita davvero raramente di essere riportati, sia pure simbolicamente, all’essenziale e capire che senz’acqua si muore, ma senza sete non si può vivere.

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