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Stili di Vita

MAESTRA MIA

VALERIO CRUGNOLA - 25/09/2020

rossanaCi sono persone con cui siamo in debito anche se non le abbiamo frequentate se non per poche ore o minuti. Tra queste annovero Rossana Rossanda, da poco scomparsa, che ha offerto a molti un magistero che oltrepassa dissensi, distanze e distacchi.

Il Manifesto rivista ha accompagnato il mio passaggio dai pantaloni corti ai pantaloni lunghi: una frattura con un dogmatismo che non sentivo mio e l’acquisto di una relativa autonomia di pensiero. Era la fine del 1969. Nel 1970, dopo un infortunio che mi costrinse a letto, persi mio padre. Avevo 22 anni. In quell’anno il Manifesto fu una scuola. Come dimenticare Praga è sola, di Lucio Magri? Dubček era stato una bella speranza presto messa in ombra da miti oggi impronunciabili, come la criminosa e ultratotalitaria Rivoluzione Culturale di Mao Zedong. In chi lo lesse, quell’articolo facilitò un congedo dai miti dei socialismi reali e una presa d’atto (già allora tardiva) della loro tragicità. Il distacco dei redattori della rivista e del quotidiano dalle mitologie fu troppo lento, specie su Cina e Cuba, e ancor oggi non è stato consumato, benché la fedeltà ai nomi sia ormai del tutto irrilevante. Ma i lettori non avevano la stessa ottica e la stessa ostinata fedeltà, la stessa testardaggine identitaria. Importante per loro era pensare, pensare criticamente, battere vie alternative, per quanto non chiare. Il coraggio ci fu, ma non bastò. Quel solco è da tempo esaurito, ma chi non vi è entrato non può capirne la portata liberatoria. Benché avessi lasciato il movimento poco dopo la nascita del PdUP, quel momento felice culminò nel 1977 con un grande convegno a Venezia, oggi pressoché dimenticato, con la presenza di dissidenti sovietici e studiosi di grande spessore, veri e propri eresiarchi rispetto al manierismo ideologico che persino Berlinguer non aveva ancora osato recidere del tutto. Il tema delle “società di transizione” divenne una prospettiva analitica e teorica che ricuciva le catastrofi ad est con la crisi in Europa occidentale. La presa di distanza da un socialismo identificato con la dittatura del proletariato, il monopartitismo e l’economia statalizzata si associò alla premonizione della crisi sistemica dei modelli di welfare, non riducibili al caos monetario, ai gravami fiscali e all’emergente liberismo illiberale, fenomeni che pure il Manifesto seppe cogliere sin dal 1972.

Il perno di questo percorso teorico che voleva riunire est e ovest era l’azione della classe operaia. I moti di Danzica e Stettino divennero non meno rilevanti di Mirafiori o della Montedison di Castellanza. La transizione non era politica e statuale, non si risolveva in un atto rivoluzionario, ma era sociale e muoveva verso mutamenti molecolari che si sperava suscitassero una maggiore uguaglianza e insieme un ruolo diffuso dei poteri di controllo e indirizzo dei lavoratori. Forse utopie, ma radicate nelle dinamiche produttive dell’epoca, e comunque estranee alle cacotopie realizzate sorte dalla presunta “scienza della società” pontificata da Marx, da Engels e dai loro eterogenei seguaci. La crisi delle socialdemocrazie veniva attribuita ai suoi limiti, e si immaginava una via d’uscita da sinistra, non statolatrica e non autoritaria. In parallelo venne in luce ben presto anche la povertà di tutti i marxismi pensabili, ad eccezione delle riflessioni carcerarie di Gramsci, che traevano alimento da un filone di pensiero italiano che da Machiavelli arrivava a Croce e Gentile passando per gli elitisti del primo ‘900; i riferimenti internazionali venivano soprattutto da un ritorno a Hegel, da Bergson e, meno manifestamente, da Dewey e dall’attivismo.

Quel varco spalancò le finestre ben oltre le intenzioni dei battistrada. A sinistra si smise di leggere pensatori marxisti più o meno eterodossi ma sterili e mediocri, per studiare fecondi pensatori che con i marxismi non avevano nulla a che fare. Saltando quasi per intero l’800 – ad esclusione di Nietzsche –, alcuni cercarono dei ponti (forse incongrui, ma che importa?) tra l’illuminismo maturo e il ‘900 antitotalitario, tra i liberali americani e quei “distruttori della ragione” bollati a fuoco dal temporaneo furore staliniano di György Lukács. Mentre l’eterodossia dei fondatori e dei fedeli naufragò in una sorta di ritorno all’ordine, i lettori abbandonarono a se stessa la scolastica. Il mantra autoassolutorio secondo il quale non c’è vera democrazia senza uguaglianza fu abbandonato: solo una solida democrazia, con le sue innervature nella società (le “stecche del busto” di Gramsci), può promuovere una maggiore giustizia. Quando Berlinguer ammise tardivamente la fine di una spinta propulsiva che in verità non ci fu mai, eterodossia e ortodossia erano ormai categorie consunte.

Il Manifesto fu un seme anche oltre la barriera invalicabile del voto. Durante la campagna elettorale del 1972 le sale erano stracolme, i dibattiti autentici e franchi. Le idee, circolando, si mescolavano. Gli scambi tra generazioni, tra studenti e lavoratori, tra cultura sindacale e cultura economica, tra educazione e comunicazione, tra scienze e prassi, erano continui. Credo che molti possano convenire che quegli anni ci consentirono di abitare più mondi in un’unica esistenza: prime, seconde, terze, quarte case. Solo le urne rimasero vuote.

Le persone grandi lasciano eredità che oscillano tra punti fermi e domande insolute. Rossana Rossanda ci ricorderà l’importanza, oggi omessa e rimossa, delle uguaglianze: i beni di tutti; l’accesso universale ai servizi; un grado soddisfacente e ampio di equità nei redditi; le pari opportunità; il riconoscimento che il lavoro, i bisogni sociali e l’ambiente vengono prima del capitale, del profitto e di tecnologie distruttive.

Ma la lezione è anche nella sobrietà rigorosa di una vita consacrata allo studio, alla scrittura e all’impegno politico e civile. Qualcosa che trascende le idee e i pensieri.

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