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Cultura

NOTIZIE DAL VATICANO

RENATA BALLERIO - 09/07/2021

osservatore“Ci siamo chiusi nel salotto buono delle nostre convinzioni, del nostro pedagogismo fuori tempo massimo, del solito giornalismo voyeuristico, dell’affrettato giustizialismo da quattro spiccioli”. Giudizio duro, un j’accuse senza mezze misure contro un modo di pensare, di cui anche un certo giornalismo esce con le ossa rotte. Può sorprenderci che questa valutazione sia stata espressa, qualche anno fa, come commento ad un fatto di cronaca, l’investimento di due ragazzine romane, sulle pagine de L’Osservatore Romano. Il cardinal Montini, nel 1961, lo definì “singolarissimo quotidiano”. Giusta e valida definizione che permette di cogliere l’acuta ironia di papa Francesco. Sull’aereo di ritorno dalla Romania, nel 2019, e ultimamente all’Angelus per la festività dei Santi Pietro e Paolo, l’ha definito il giornale di partito. Efficace ironia che fa trapelare la passione del papa – scontata, si potrebbe obiettare – per un giornale famoso, quotidiano “antico” per i suoi 160 anni, che permette al lettore di documentarsi con precisione sul pensiero e sulle parole del papa.

Il che, in un’epoca in cui anche nella comunicazione giornalistica non c’è sempre chiarezza delle fonti e le linee di certi partiti non sono nette, non è da poco. Certamente il giornale dei papi offre chiavi interpretative della realtà storica e spirituale del cattolicesimo e anche questo è uno strumento per cercare di capire le ragioni degli altri. Valore abbastanza annacquato. Se questi sono motivi che giustificano il ricordare l’osservatore e la sua lunga storia, altrettanto sono importanti le domande di Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione. Su Vaticano news ha scritto: a che cosa serve un giornale? A che cosa serve oggi e a che cosa servirà domani un giornale come l’Osservatore Romano?

E a queste domande si deve aggiungere quella che con un sorriso papa Francesco ha posto alla redazione, a maggio, durante la sua visita alla sede, a palazzo Pio, del quotidiano. Con franchezza ha chiesto: a quanta gente arriviamo e con altrettanta determinazione ha affermato che “c’è il pericolo di una bella organizzazione, un bel lavoro, ma che non arrivi dove deve arrivare… un po’ la montagna che partorisce il topolino”. Domanda e riflessione che molti anche fuori dalle mure del Vaticano dovrebbero porsi. E senza dimenticare che l’Osservatore Romano, definito giornalismo per la fratellanza, è stato spesso coinvolto da tensioni interne, veri terremoti.

Non sono da dimenticare le dimissioni di Lucetta Scaraffia, moglie – per la cronaca – di Ernesto Galli della Loggia, e di altre donne che accusarono un’impostazione troppo maschilista, poco rispondente e coerente rispetto alla promozione del ruolo delle donne da parte di papa Bergoglio oppure la sostituzione di Giovanni Maria Vian con l’attuale direttore Andrea Monda. Insomma da quel lontano lunedì del 1 luglio 1861 tanta acqua è passata. E non solo del Tevere. La storia del quotidiano del Vaticano, attualmente diffuso in sette lingue, è una pagina di storia, non solo giornalistica, molto interessante. Secondo l’intenzione dei fondatori, l’avvocato Nicola Zanchini di Forlì e Giuseppe Bastia, giornalista bolognese, il giornale si sarebbe dovuto chiamare L’amico della verità”. Ma si sa che il percorso per la verità non è mai facile. In parte ce lo ricordano da anni le due locuzioni latine presenti in prima pagina: unicuique suum, a ciascuno il suo, come sostenne il giurista Ulpiano, unitamente alla speranza che i mali non prevarranno. Non prevalebunt: augurio al vecchio ma sempre rinnovato Osservatore Romano, organo ufficiale del Vaticano, che solo durante il fascismo raggiunse il boom di copie: centomila.

Ben ha fatto Paolo Ruffini a ricordare che sarebbe un errore considerare la celebrazione di 160 anni di pubblicazione come un traguardo. Occorre sempre un nuovo dinamismo e guardare al futuro. E sagge sono le sue parole per cui la potenziale capacità del giornale è quella di “porre domande, di essere davvero liberi, di non essere rassegnati o acquiescenti”. Aggiungiamo che: a ciascuno il suo non deve essere solo un motto.

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